Il dolore psicogeno - Pathos

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Il dolore psicogeno

Psychogenic pain
Review
Pathos 2009, 16; 2; 2009, Jun 20  
  https://doi.org/10.30458/PA2009-89
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Marco Lacerenza
Dipartimento di Neuroscienze
Cliniche Ospedale San Raffaele-Turro, Milano
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Riassunto Complesso da definire, ancor più difficile da trattare, il dolore psicogeno resta una sfida per la medicina contemporanea dal punto di vista fisiopatologico e terapeutico. Tra le molte definizioni nosografiche succedutesi nell’arco degli ultimi 30 anni la definizione del DSM IV TR di “disturbo algico” rispecchia meglio le caratteristiche cliniche di questo fenomeno. Il dolorenegli ultimi decenni è passato dalla condizione di sintomo più comune e forse poco considerato dal punto di vista scientifico, a quella di una sofisticata esperienza multidimensionale sottesa da precise aree cerebrali comprese nella Neuromatrice del Dolore (Pain Matrix). Il paziente con dolore psicogeno coniuga l’interesse di una psichiatria sempre più biologica e morfologica con quello di un’algologia come scienza multidisciplinare, dove solo l’incontro di varie competenze diagnostico terapeutiche può offrire l’approccio integrato più utile.
Summary  Complex to be defined, still more difficult to treat, the psychogenic pain stays a challenge for the contemporary medicine from the pathophysiologic and therapeutic points of view. Among the several descriptions given to psychogenic pain within the last 30 years, the definition of the DSM IV TR of “pain disorder”, better fits the clinical characteristics of this clinical phenomenon. Pain in the last decades has passed by the condition of more common symptom and perhaps a little considered by the scientific point of view, to that of a sophisticated multidimensional experience subtended by precise cerebral areas inclusive in the Pain Matrix. The patient with psychogenic pain conjugates the interest of a more biological and morphological psychiatry with that of a Pain Medicine as multidisciplinary science, where only the meeting of various diagnostic and therapeutic competences can offer the more profit integrated approach.
Parole chiave Dolore psicogeno, disturbo algico, review
Key words Psychogenic pain, pain disorder, review

Definizione di dolore psicogeno
Il dolore psicogeno è un argomento che da sempre nella storia della medicina suscita controversie, schieramenti e diffi coltà di definizione. L’International Association for the Study of Pain (IASP), definisce il dolore come “Una spiacevole esperienza sensoriale ed emozionale…”. 1
Secondo tale definizione l’espressione dolore psicogeno sarebbe una tautologia poiché un’esperienza emotiva non può che essere un fenomeno psicologico.2 La dimostrazione certa che un dolore non abbia alcuna componente sensoriale (attivazione fisiologica o patologica delle vie nervose dal nocicettore alla corteccia cerebrale) è un compito spesso difficile. Inoltre, le scoperte più recenti nel campo delle neuroscienze documentano come le aree cerebrali preposte all’integrazione e modulazione dell’esperienza dolorosa, che potremmo defi nire come aree sensoriali o affettive, possono essere attivate in presenza o meno di una stimolazione dolorosa in periferia.3 Il dolore è stato studiato scientificamente solo nell’ultimo mezzo secolo. Gli studi psicologici degli ultimi 50 anni hanno portato all’introduzione del concetto di dolore come “esperienza multidimensionale” in cui fattori etnici, culturali, sociali e religiosi possono interagire con la componente sensoriale e il substrato psicologico dell’individuo per generare un’esperienza unica e complessa. Nel caso del dolore cronico è stato ormai ampiamente documentato che i fattori psicologici giochino un ruolo fondamentale. La diagnosi di dolore psicogeno è spesso rifiutata dai pazienti, da alcuni medici non considerata, da altri troppo sfruttata per “etichettare” pazienti con anamnesi e sintomi complessi che non rientrano in una delle categorie tipiche della nosografia tradizionale.
La tassonomia di questa materia si è modificata negli anni seguendo le mode e i paradigmi scientifici del tempo. Per esempio, il dolore è solo uno dei tanti sintomi descritti all’interno della controversa e ormai abbandonata definizione d’isteria.

Il dolore psicogeno nella storia
A partire da Ippocrate, alcune forme di cefalea furono associate all’influenza dell’utero che si pensava si muovesse all’interno del corpo, da qui l’origine del termine isteria che riconosce la sua radice greca in hystéra, utero. Tra il XVII e il XVIII secolo cominciò ad affacciarsi il concetto moderno d’isteria, cioè di una patologia che nasceva da idee, influenzate da eventi stressanti, che si manifestavano come sintomi fisici e che poteva dare subdole disfunzioni cerebrali.4 Cento anni più tardi, Briquet, nei suoi classici lavori sull’isteria, descriveva pazienti con sintomi fisici a cui, indipendentemente da questi, si associava molto spesso il sintomo dolore. Con la nascita della medicina moderna, durante il XIX secolo, fu proposta da Müller nel 1838 e supportata con dati anatomici da von Frey nel 1894 la dottrina delle “energie specifiche”; per cui a un’esperienza sensoriale corrispondeva un canale specifico. Tale teoria supportò l’inclinazione a classificare il dolore come una categoria sensoriale,5 tralasciando l’importanza della componente psicologica.
La tendenza a sottovalutare la componente affettiva del dolore fu in seguito alimentata dalla scuola Oxoniana che sosteneva che gli aspetti sensoriali dell’esperienza dolorosa prevalevano sulle componenti affettivo-cognitive. In questo contesto storico Breuer e Freud dimostrarono però, in alcuni dei loro pazienti, la natura psicogena di alcune condizioni dolorose. La spinta impressa dalla medicina scientifica dell’inizio del XX secolo generò la tendenza a separare il dolore in “organico” (generato da lesione tissutale) e “funzionale” (generato dalla psiche), avvallando la divisione mente-corpo così profondamente radicata nella medicina occidentale. Per contro, acuti osservatori di pazienti come Livingston6 e Walters,7continuavano a sottolineare l’interdipendenza di fattori organici e psicologici nella generazione e nel mantenimento del dolore.
Nel corso della storia diversi sono i termini utilizzati per riferirsi al dolore psicogeno tra cui: dolore isterico, dolore funzionale, psicalgia, dolore sine materia, dolore da conversione, dolore in assenza di causa organica, dolore come equivalente depressivo e altri ancora.

Il dolore psicogeno nella medicina moderna
Nella complessa classificazione della IASP1 è proposto un sistema a 5 assi per classificare il dolore cronico in base a:
I) la regione anatomica;
II) l’apparato interessato;
III) le caratteristiche temporali del dolore;
IV) il giudizio d’intensità da parte del paziente e la sua durata dall’esordio;
V) l’eziologia.

Il dolore psicogeno rientra nelle sindromi relativamente generalizzate e viene definito come dolore di origine psicologica. All’interno di questa categoria sono descritte 3 sottoclassi.
Dolore muscolo tensivo: dolore virtualmente continuo in qualsiasi parte del corpo causato da contrattura muscolare prolungata e provocato da cause emotive o da eccessivo impiego di certi muscoli.
Dolore da delirio o allucinatorio: dolore di origine psicologica attribuito dal paziente a una particolare causa delirante.
Dolore isterico, da conversione o ipocondriaco: dolore specificamente attribuibile allo stato mentale, emotivo o alla personalità del paziente in assenza di cause organiche, deliri o meccanismi tensivi.
Parte di questa nomenclatura è stata abbandonata nelle più recenti edizioni dei sistemi di classificazione delle patologie psichiatriche. Nella pratica clinica e in letteratura, considerando la difficile applicabilità della classificazione IASP,8 si utilizzano più comunemente le classificazioni del Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders (DSM) o l’International Classification of Diseases (ICD). Con il perfezionarsi di questi sistemi e con il progredire delle conoscenze psicologiche sul dolore, il dolore psicogeno ha incontrato e cambiato diverse definizioni e criteri diagnostici come: disturbo psicofisiologico (DSM-II), disturbo da dolore psicogeno (DSM-III) e disturbo da dolore somatoforme (DSM-III-R). Le difficoltà nel soddisfare i diversi criteri diagnostici delle versioni precedenti al DSM IV si sono concretizzate negli anni successivi con lo scarso impiego di queste nomenclature nella pratica clinica e nella letteratura scientifica. Nel DSM-IV,9 in virtù dell’esperienza precedente, questa categoria diagnostica è stata alleggerita e modificata con la proposta del “disturbo algico”, che rientra nel capitolo dei disturbi somatoformi e si avvicina alle caratteristiche del disturbo somatoforme algico persistente dell’ICD-10.10 Il disturbo algico è l’attuale diagnosi psichiatrica che ricalca meglio quella di dolore psicogeno.11Questa diagnosi può essere posta quando il dolore, in una o più sedi anatomiche, è la componente predominante del quadro clinico, in assenza di altre condizioni psichiatriche o di dispareunia e in presenza di qualche fattore psicologico che giochi un ruolo significativo sull’esordio, la gravità, l’esacerbazione o il mantenimento del dolore. Il dolore deve generare un malessere clinicamente significativo oppure limitazioni nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti della vita.
Il disturbo algico tiene inoltre conto dell’arco temporale in cui si manifesta il dolore, definendosi acuto se di durata inferiore ai 6 mesi o cronico se dura 6 mesi o più. Più spesso nella pratica clinica si incontrano pazienti con questa condizione di tipo cronico. Per semplicità, d’ora in poi, si userà il termine dolore psicogeno o dolore somatoforme per definire il dolore del paziente affetto da disturbo algico, quello che caratterizza le condizioni descritte all’interno della categoria dei disturbi somatoformi secondo il DSM-IV-TR.12

Epidemiologia
Lo studio dell’epidemiologia del dolore psicogeno ha incontrato molte difficoltà:
1) la definizione stessa non è univoca e si è modificata nel corso degli anni insieme ai suoi criteri diagnostici
2) esiste una grande eterogeneità delle condizioni dolorose (cefalee, lombalgie e dolori vertebrali, dolori muscolari, dolori toraco-addominali, dolori regionali, dolori pelvici, panalgie)
3) vi è un alto potenziale di errore diagnostico per:
a. la difficoltà nell’identificazione di una causa organica in una sindrome dolorosa porta alla determinazione di una causa psicogena che resta quindi una diagnosi di esclusione, dimenticando che “l’assenza di una prova non è uguale alla prova dell’assenza”;13
b. la difficoltà nel dimostrare la presenza e l’importanza dei fattori psicologici nel causare, amplificare e mantenere il dolore;
c. la difficoltà nel considerare in modo appropriato la rilevanza delle comorbidità psichiatriche (ansia, depressione, disturbo fi ttizio e simulazione) nel quadro clinico di pazienti con dolore cronico.
Anche a causa di queste argomentazioni manca il consenso nella letteratura scientifica algologica nell’accettare, per esempio il disturbo algico del DSM-IV come paradigma nosografico di riferimento. Una revisione della letteratura14applicando i criteri del DSM-III-R, evidenzia che la frequenza dei disturbi somatoformi nei pazienti con dolore cronico varia da 0-53 per cento. Uno studio precedente che utilizzava i vecchi criteri del DSM-III, mostra che, in pazienti con dolore cronico, nel 32 per cento dei casi era diagnosticato un dolore somatoforme e nel 2 per cento un disturbo da conversione.15
Per contro, Fishbain e collaboratori,16 in una popolazione di pazienti afferenti a una clinica del dolore, diagnosticarono un dolore somatoforme nello 0,3 per cento dei casi e un disturbo da conversione nel 38 per cento.
Uno studio su 106 pazienti consecutivi afferenti a una clinica del dolore, condotto da algologi e psichiatri utilizzando i criteri di ICD-9 e DSM-III, rileva che in circa la metà dei pazienti era posta la diagnosi di patologia psichiatrica e in 2/3 di questi una forma di depressione; nel 15 per cento dei pazienti era posta diagnosi di disturbi somatoformi e una chiara patologia organica fu riscontrata nel 38 per cento dei casi. In nessun caso fu possibile diagnosticare un disturbo da dolore psicogeno, nonostante la maggior parte dei criteri fossero soddisfatti, poiché la presenza di altre condizioni dava la precedenza, secondo la classificazione, ad altre diagnosi. Questo studio è molto interessante ed è  emblematico perché mette in evidenza come sia diffi cile porre la diagnosi di disturbo da dolore psicogeno, anche in assenza di patologia organica, se ci si attiene strettamente ai criteri proposti dai sistemi classificativi.17
Da uno studio epidemiologico di prevalenza della durata di 12 mesi effettuato su un campione di popolazione generale (4181 soggetti di età compresa tra i 18-65 anni), utilizzando un questionario standardizzato e i criteri del DSM IV, emerge che il disturbo algico ha una prevalenza dell’8,1 per cento (maschi 4 per cento, femmine 11 per cento) e che nel 53 per cento dei casi si ha comorbidità con disturbi d’ansia (35 per cento) e/o dell’umore (30 per cento).18 Questi dati chiariscono l’impatto sociale di questa patologia che si accompagna ad una severa disabilità, con rilevante riduzione del benessere fisico e psicologico, e un elevato impiego delle risorse socioassistenziali. Le sindromi dolorose psicogene in relazione a un disturbo psicotico sembrano essere abbastanza rare e facilmente riconoscibili; la loro diagnosi è possibile solo dopo aver escluso cause organiche e quando il dolore risulta in chiara
relazione all’ideazione delirante o allucinatoria. Si stima che questo tipo di dolore, che può localizzarsi in qualsiasi parte del corpo, sia presente in meno del 2 per cento dei pazienti con dolore cronico.1 Considerando l’eterogeneità per sede del dolore psicogeno, può essere interessante osservare come le diverse sedi di localizzazione del dolore si distribuiscono per frequenza in popolazioni omogenee.
Nello storico lavoro di Walters7 su 430 pazienti, di cui 299 di sesso femminile, con dolore psicogeno regionale, il 43 per cento dei pazienti aveva dolore nel distretto cranio-collo, il 31 per cento al torace e arti superiori, il 26 per cento a livello lombare e agli arti inferiori, il 14 per cento al tronco e dorso, il 12 per cento in regione genito-pelvica e il 6 per cento addominale.
Uno studio epidemiologico effettuato su una popolazione di pazienti affetti da dolore cronico e sintomi clinici non spiegabili, documentava che nel 41 per cento dei casi si trattava di lombalgia, nel 26 per cento di cefalea, nel 17 per cento di dolore addominale, nel 12 per cento di dolore facciale e nel 12 per cento di dolore toracico.19

Cause che lo provocano e patogenesi
Esiste un substrato di centri e connessioni neurali (pain network o neuromatrix) che può evocare la spiacevole esperienza che definiamo dolore, anche in assenza di uno stimolo doloroso, e la sua attività, in risposta a differenti stimoli, è stata documentata con tecniche neurofisiologiche e di neuroimaging.3,20,21  E’ esperienza comune che una suggestione diretta in modo più o meno consapevole ad evocare dolore, possa generare il sintomo; questo fenomeno prende il nome di nocebo. Per esempio, nell’atto di prescrivere una terapia, una “parola sbagliata”, un’incomprensione, un’attitudine di scarso ascolto o una descrizione troppo meticolosa degli eventi avversi di un nuovo farmaco, possono evocare una risposta nocebo nel paziente. Il commento del paziente seccato a un successivo controllo sarà “La sua terapia ha gravemente peggiorato il mio dolore. È possibile?” Si, è possibile, ma la terapia ha solo dato lo spunto per l’innesco e il mantenimento di un fenomeno psico-fisiologico che ha attinenza con le aspettative, le credenze e le paure radicate nelle esperienze, spesso spiacevoli, che appartengono al bagaglio psicologico di questi pazienti. A sostegno di quest’ipotesi l’esperienza, nella ricerca clinica, insegna che cefalee, dolori addominali e altri sintomi possono comparire in relazione all’assunzione di placebo. Nel folklore popolare incontriamo misteriosi fenomeni come il “malocchio”, le “fatture” o in altre culture alcune pratiche Voodoo che sottendono meccanismi di questo tipo.
In un gruppo di studenti di college sottoposti a un protocollo sperimentale che prevedeva un passaggio di corrente elettrica (lo stimolo elettrico era prospettato ma non somministrato) attraverso il cranio, 2/3 dei soggetti ha lamentato una modesta cefalea.22 In una ricerca effettuata su primati si documenta che facendo svolgere all’animale un compito che richieda un’attenzione focalizzata su stimoli dolorosi, si può registrare un’attivazione delle “on cells” del tronco encefalico, che facilitano la trasmissione del dolore, prima della presentazione dello stimolo doloroso.23
Bisogna però rilevare che il paradigma sperimentale del dolore acuto, riprodotto in laboratorio, è distante dalla condizione di dolore cronico espressa dai pazienti; è quindi difficile estrapolare da queste similitudini conclusioni certe.

Dolore e personalità
In tutti i pazienti con dolore cronico si osservano reazioni psicologiche comuni quali: depressione, ansia, rabbia e frustrazione. Nel passato questa omogeneità di risposta ha portato a supporre che questi pazienti avessero tratti simili di personalità. La ricerca clinica ha chiarito che i pazienti con dolore cronico possono manifestare disturbi di personalità24 e che tratti di personalità patologici possono predisporre il soggetto a sviluppare dolore cronico. A questo proposito, alla fine degli anni Cinquanta, Engel introduceva il modello della personalità prona al dolore per tentare di caratterizzare il paziente con dolore psicogeno.25 Secondo questa visione il dolore nell’adulto diventerebbe un meccanismo di difesa evocato da conflitti infantili irrisolti. Spesso in questi pazienti si possono riconoscere storie di abuso o punizioni infantili che faranno associare il piacere al dolore portando l’adulto a relazioni masochistiche dove il dolore diventa una forma di difesa psicologica.26
In questa direzione, anche il senso di colpa, conscio o inconscio, potrebbe diventare un elemento costante nella scelta del dolore come sintomo, rispetto ad altri sintomi fisici. A questo proposito è stato suggerito che la relazione tra somatizzazione e abuso nell’infanzia coinvolga un pattern paradosso di sensazioni e realtà nascoste mentre si ricerca un riconoscimento della sofferenza.27 In questi pazienti la dicotomia tra l’attitudine pervasiva alla segretezza sui loro vissuti di abuso e la concomitante ricerca spasmodica di riconoscimento della loro condizione di sofferenza può spiegare molti dei comportamenti disfunzionali che manifestano pazienti con dolore cronico.
Questi comportamenti includono una spasmodica ricerca di validazione attraverso l’accumulo di grande quantità di letteratura, seconde opinioni, test diagnostici, prescrizioni, trattamenti non convenzionali, procedure invasive, varie forme di “guadagno secondario”.28 Anche se questo modello riscuote tuttora un certo interesse, altre ricerche tendono a smentire l’esistenza di una relazione chiara tra un’infanzia problematica e il dolore psicogeno e sembra che il manifestarsi di una patologia psichiatrica più spesso segua la condizione di dolore cronico piuttosto che anticiparla.29 A sostegno di questa ipotesi si può portare l’esperienza, iniziata circa 20 anni fa, dell’impiego del Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) nei pazienti con sindromi dolorose. Il tipico profilo ottenuto all’MMPI faceva supporre che i pazienti con dolore avessero un comune assetto di personalità. Tale dato non è stato confermato da lavori successivi che hanno
documentato che era la condizione di dolore e disabilità a promuovere la modificazione dell’assetto di personalità e quindi il “profilo tipico” dell’MMPI non era specifico.30
L’idea che possa esistere un profilo di personalità specifico nei pazienti con dolore cronico o dolore psicogeno è stata quindi abbandonata. Questo tuttavia non deve limitare la ricerca di sottogruppi di pazienti con dolore cronico in cui fattori genetici, patologici e psicosociali possono facilitare il mantenimento nel tempo del dolore anche attraverso simili assetti personologici.

Dolore e depressione
La depressione è la più comune patologia psichiatrica riscontrata nei pazienti con dolore cronico e le complesse relazioni tra queste due condizioni sono state affrontate in molti lavori.31,32 E’ possibile osservare sintomi depressivi nel 30-55 per cento dei pazienti con dolore cronico33,34 e un terzo di questi è affetto da depressione maggiore.35
L’efficacia dei farmaci antidepressivi nelle sindromi dolorose croniche e il frequente riscontro di dolore in pazienti depressi portò agli inizi degli anni Ottanta a formulare l’ipotesi che il dolore cronico fosse una forma di depressione mascherata.36 Successive ricerche smentirono questa possibilità dimostrando che l’intensità del dolore non è correlata ai sintomi depressivi e che la depressione non è un fattore di rischio specifico per sviluppare dolore.37 E’ interessante inoltre rilevare che in uno studio l’amitriptilina risultava efficace nel trattamento della depressione ma non del dolore in pazienti con dolore somatoforme.38 Diversi lavori hanno indagato la relazione temporale tra dolore e depressione, al fine di stabilire se il dolore fosse antecedente o conseguente alla depressione. Nel rilevante lavoro di analisi della letteratura di Fishbain del 1997, sono state sottolineate tre possibilità:
1. l’ipotesi antecedente, cioè che sia la depressione a indurre il dolore cronico, incrementando la sensibilità al dolore e abbassandone la soglia di tolleranza;
2. l’ipotesi conseguente, cioè che la depressione sia una reazione psicologica al dolore cronico;
3. l’ipotesi che il dolore cronico e la depressione possano manifestarsi contemporaneamente, in quanto sottesi da comuni meccanismi patogenetici cognitivi e/o biologici.39

Anche se la maggior parte delle evidenze sostiene che la depressione sia conseguente alla sindrome dolorosa,39 da uno studio prospettico emerge la possibilità di una relazione bidirezionale.40 E’ molto importante nella valutazione di un paziente con dolore cronico e depressione quantificare clinicamente la quota di ansia, rabbia e frustrazione.
E’ stato dimostrato che un grado severo di ansia può compromettere le possibili strategie di autocontrollo nei confronti del dolore.41 Pertanto, prima di iniziare trattamenti farmacologici o psicologici rivolti al dolore, bisogna ridurre la quota d’ansia. La  rabbia sembra essere in relazione con l’entità della stima soggettiva di quanto il dolore interferisce nella vita del paziente.42 Sembra pertanto che non solo la depressione ma anche l’ansia, la rabbia e la frustrazione contribuiscano in modo significativo al corteo di emozioni spiacevoli che si associano alle condizioni di dolore cronico. La valutazione e il trattamento delle singole componenti possono pertanto favorire il miglioramento globale dell’attitudine emozionale dei pazienti con dolore cronico.43

Dolore e comportamento
La misura del dolore, per le intrinseche caratteristiche esperienziali del sintomo, non può produrre risultati oggettivi. La comunicazione del dolore utilizza canali verbali e non verbali (lamenti, mimica facciale, posture antalgiche, zoppie, difficoltà lavorative, richieste indirette di aiuto) che ogni operatore sanitario dovrebbe saper riconoscere e integrare nella storia del paziente. Il dolore cronico si traduce molto spesso in un carico emotivo difficile da sostenere e varia nella sua manifestazione esteriore in funzione di fattori etnici, culturali, sociali e religiosi. I pain behaviors, comportamenti di dolore, sono osservabili e quantificabili; possono diventare quindi uno strumento utile di valutazione del paziente con dolore cronico. Gli stessi comportamenti di dolore possono evocare risposte nei membri della famiglia, negli operatori sanitari o nei colleghi di lavoro che possono rinforzare e mantenere il comportamento stesso: zoppicare, per esempio, può evocare compassione e attenzioni che possono rinforzare questa condotta che può essere mantenuta anche in assenza di dolore.44
Questo comportamento, rivolto consciamente o inconsciamente ad acquisire e/o sostenere un vantaggio che il soggetto percepisce come utile in quel momento, non deve sorprendere. Si può a questo proposito ricordare la cagnetta Stasi di Konrad Lorenz che, acquisita l’esperienza che zoppicare voleva dire risparmiarsi, correva o zoppicava a seconda che l’illustre padrone la conducesse verso luoghi alei piacevoli o spiacevoli.45
Fordyce nel 197646 propose un modello comportamentale d’apprendimento e condizionamento operante per spiegare il dolore cronico. Questo modello si fondava sul fatto che la persistenza di dolore e disabilità era rinforzata da vantaggi secondari, come supporti finanziari e maggiori attenzioni da parte dei familiari e della società. Queste idee furono e sono alla base dei programmi comportamentali di recupero di pazienti con dolore cronico. L’obiettivo di questi trattamenti è di eliminare i rinforzi al comportamento di dolore attraverso il rinforzo dei comportamenti volti al benessere (condurre una vita normale, ridurre l’assunzione di analgesici e ricominciare a pensare allo svago e al lavoro). La critica che fu mossa a questa teoria e al trattamento conseguente era che, nonostante il paziente riducesse il comportamento di dolore attraverso un condizionamento operante in direzione diversa, continuava a lamentare lo stesso dolore. Inoltre, la riduzione del comportamento di dolore non significava che il dolore era generato o mantenuto da meccanismi di tipo comportamentale.47 Resta tuttavia innegabile che la storia e l’osservazione del comportamento di dolore sono spesso indispensabili per poter porre la diagnosi di dolore psicogeno e per avvicinarsi all’individuazione dei meccanismi psicologici sottostanti.
Pilowsky, alla fine degli anni Sessanta,48 per cercare di fare ordine e rendere meglio comprensibili i pazienti che oggi si classificano nella categoria dei disturbi somatoformi, propose il concetto di “comportamento anormale di malattia”. Suddivise così le aree di esplorazione del funzionamento del paziente in sei domini che comprendono:
1) la natura del sintomo
2) la componente somatica
3) l’ideazione e l’affettività
4) l’attitudine nei confronti degli altri
5) la motivazione del paziente nell’ottenere il ruolo di malato
6) i fattori culturali.
Questa ricerca portò all’individuazione di pazienti che non accettano l’aiuto del personale sanitario che non sia in accordo con la visione personale del proprio stato di malattia; venne quindi proposto il “comportamento anormale di malattia” come uno stile maladattativo, presente in alcuni pazienti con dolore cronico.49 Questo stile patologico, potrebbe favorire il mantenimento del dolore nel tempo e interferire con i trattamenti proposti.

Dolore e somatizzazione
I sintomi e i segni somatici clinicamente inspiegabili, associati o meno a dolore psicogeno, sono di frequente riscontro nella pratica clinica e, anche se non è raggiunta la soglia per la diagnosi di una patologia psichiatrica secondo DSM, possono essere invalidanti e richiedere frequenti attenzioni mediche con conseguente dispendio di risorse socio-assitenziali. Con l’impiego di test psicologici standardizzati, è stata dimostrata una relazione lineare tra il numero di sintomi fisici non spiegabili e la presenza di disturbi d’ansia o di depressione, la dimensione psicologica dell’evitamento del pericolo (harm avoidance) e la tendenza alla preoccupazione/pessimismo e l’impulsività.50
Nei casi più severi utilizzando i criteri del DSM-IV sarà possibile diagnosticare un disturbo di conversione, un disturbo di somatizzazione, o l’ipocondria. Il meccanismo che sta alla base dell’isteria o, secondo la corrente nomenclatura, del disturbo da conversione, si fonda sull’ipotesi psicanalitica che un disagio psico-emotivo o un conflitto interiore possono manifestarsi con un disturbo somatico in assenza di alterazioni clinicamente rilevanti degli organi o dei sistemi coinvolti. Il corpo sarebbe così utilizzato per raccontare in maniera simbolica qualcosa che non riesce ad essere espresso a livello cosciente, in quanto inaccettabile (rimosso). Inoltre, sempre a livello inconscio, il sintomo somatico ristabilirebbe un equilibrio psichico generale che la condizione psicopatologica sottostante aveva messo in discussione.
I sintomi e segni somatici sono molto vari: cecità, paralisi, anestesie, iperalgesie, dolore, diplopia, vertigini, afonia, pseudoconvulsioni e perdite di coscienza. La negatività degli accertamenti strumentali deve essere accompagnata al riscontro di una relazione tra un evento precipitante, connesso a un conflitto psicologico o alla situazione emotiva del paziente e il disturbo somatico. In alternativa si deve evidenziare una forma di guadagno secondario, per cui la presenza del sintomo fisico evita al paziente situazioni non desiderate o sancisce condizioni di supporto o di vantaggio. Attualmente, per i cambiamenti sociali e culturali avvenuti nell’ultimo secolo, è più difficile incontrare la grande fenomenologia isterica; per questo motivo, piuttosto che descrivere sintomi e segni spesso instabili e variabili, si preferisce parlare di espressione di uno stile e di modalità di relazione interpersonale.51
Molto spesso, pazienti con sintomi somatoformi lamentano dolore; da uno studio danese di 127 pazienti con sintomi somatoformi, si deduce che nel 47 per cento dei casi la diagnosi di invio non comprendeva il sintomo dolore ma dopo l’intervista strutturata, tutti i pazienti eccetto uno lamentavano almeno una sede di dolore (citato in 26). Considerando l’associazione tra sintomi di conversione e dolore cronico benigno, era stato proposto un modello in cui il dolore cronico benigno poteva essere il substrato ideale per innescare sintomi di conversione in pazienti predisposti psicologicamente.52
Nel passato si credeva che esistessero importanti fattori familiari o genetici alla base dei disturbi di somatizzazione ma la pratica clinica e la ricerca sono concordi nel suggerire che la somatizzazione, come processo, possa manifestarsi frequentemente nella popolazione generale, con livelli variabili di gravità, e che solo raramente raggiunga la soglia della diagnosi psichiatrica.53,54 Anche se i fenomeni di somatizzazione sembrano stringere un rapporto causale con un trauma avvenuto nell’infanzia55 o più avanti nel corso della vita, in un recente lavoro prospettico è stata smentita l’ipotesi che la vittimizzazione infantile fosse predisponente per il manifestarsi in età adulta di sindromi dolorose psicogene.56  
Uno studio effettuato su una popolazione di 11986 gemelli documenta come nella sindrome da colon irritabile siano tanto importanti fattori genetici quanto, se non di più, fattori legati al condizionamento sociale.57 E’ ormai chiaro che in famiglie predisposte alla somatizzazione per fattori etnici, sociali, culturali e religiosi, l'istruzione” della prole alla somatizzazione possa favorire il manifestarsi del fenomeno clinico e il suo mantenimento, secondo modalità che si modificheranno nel tempo in relazione alla condizione socioculturale. E’ forse quindi più corretto pensare al fenomeno della somatizzazione come a un continuum di gradi diversi di espressione, presente nella popolazione generale, piuttosto che ad un insieme di severi disturbi che colpiscono solo una piccola parte di pazienti.54 A questo proposito si può immaginare che la variabilità della somatizzazione nei pazienti con dolore, anche di chiara natura organica, possa dipendere da fattori come il preesistente stato psicopatologico, l’entità del disagio psicologico, l’assetto di personalità e lo stile di coping del singolo paziente.

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