Un lungo percorso dalla Rianimazione al Dolore - Pathos

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Un lungo percorso dalla Rianimazione al Dolore

A long journey from Intensive Care to Pain
Editoriale
Pathos 2009, 16; 1; 2009, Apr 10
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Intervista a Renato Coluccia
A cura di Mara Sala, Redazione Pathos
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Continua la pubblicazione delle interviste, inaugurata dal nostro giornale nel corso del 2007, agli studiosi e ai clinici che hanno un ruolo determinante nello studio e nella terapia del dolore nel nostro Paese. La Redazione ha intervistato questa volta
Renato Coluccia, vice Presidente AILAD e Direttore del Servizio di Anestesia e Rianimazione dell’Istituto Ortopedico Gaetano Pini.

Siamo negli anni Sessanta. Dalla laurea in medicina all’anestesia...
Mi sono laureato nel 1968 e volevo prendere una specialità di indirizzo medico. In quegli anni l’anestesia e la rianimazione decollavano bene e si trattava di discipline affini alle mie aspettative culturali. Infatti, pur essendo l’anestesia di supporto alle attività chirurgiche, richiede conoscenze approfondite di fisiopatologia, farmacologia applicata e medicina critica “a tutto campo”.
Da essa è nata la rianimazione, che si poneva come disciplina nuova e in grande evoluzione, sia per gli studi in corso sia per il costante progresso delle tecnologie applicate alla medicina.

Oggi Lei è Direttore del Servizio  di Anestesia dell’Ospedale Gaetano Pini. Quando ha deciso di intraprendere la strada dell’algologia?
Nel momento in cui ho deciso per la specializzazione, ho considerato la terapia del dolore una parte molto importante della mia professione, perché congeniale alla cultura teorica e pratica di un anestesista. L’anestesista abolisce il dolore e anche lo stato di coscienza nel momento operatorio; trattare il dolore nel postoperatorio è la sua logica conseguenza. Nel mio ospedale, il Pini di Milano, si effettua chirurgia prevalentemente di elezione; si trattano perciò pazienti con dolori acuti per cause traumatologiche e operatorie, oppure pazienti affetti da alterazioni dell’apparato muscoloscheletrico, che da tempo soffrono di dolore cronico in più parti del corpo e perciò richiedono l’intervento del chirurgo; in tale ultima circostanza, le problematiche di trattamento si complicano ulteriormente per la sovrapposizione del dolore acuto postoperatorio a una sindrome algica cronica. In questi pazienti, la sedazione del dolore è importante tanto quanto la procedura chirurgica, anche perché il dolore non è un semplice sintomo, ma induce stati fi siopatologici a volte gravi, appunto la “sindrome algica”, che in alcune circostanze può evolvere in maniera nefasta, indipendentemente dalla causa primitiva di malattia.

Alcune persone l’hanno sicuramente guidata in questi anni... Quali sono stati i suoi Maestri?
Le persone che mi hanno guidato sono i capi storici dell’algologia mondiale, di cui ho letto i testi e che in qualche caso ho conosciuto. Per quanto riguarda il nostro Paese, posso citare fra i pionieri sia in campo scientifico che clinico-organizzativo: Tiengo a Milano, Rizzi a Vicenza, Rossano ad Ancona, Matteucci a Como e Moricca a Roma, insieme ovviamente ad altri colleghi.

Da esperto del settore, può dirci cosa è cambiato negli ultimi anni nell’approccio al dolore?
È cambiata la cultura nei riguardi del dolore, sia nello studio che nella terapia da parte degli addetti ai lavori, ma anche da parte della società intera. Stiamo cercando di cambiare anche il servizio fornito al paziente. Sappiamo che, entrando in un ospedale per un intervento, si ha inevitabilmente paura del dolore, soprattutto nella fase postoperatoria. In questo senso sono cambiati anche i codici deontologici delle professioni sanitarie. Il paziente non va solo tranquillizzato, ma trattato con analgesici e sedativiaffinché non senta dolore. In tutta Europa esistono ormai normative che stabiliscono la necessità di poter accedere a un “ospedale senza dolore”. Rispetto al periodo nel quale io ho iniziato a lavorare, questo mi sembra un cambiamento veramente importante, direi addirittura epocale. Si è affermato con forza il diritto alla salute e con esso anche il diritto a non soffrire e alla qualità della vita, quindi alla cura del dolore in tutti i suoi aspetti.

Lei è vice Presidente AILAD, associazione che si pone l’obiettivo di diffondere la “cultura del dolore”. È soddisfatto dell’attività svolta in questi anni?
Per tutte le ragioni esposte, con Mario Tiengo e altri professionisti abbiamo deciso di fondare AILAD, di cui sono vice Presidente, e che ha sede nell’ospedale in cui opero attualmente. Per quanto già esposto, all’anestesista è congeniale interessarsi al dolore, sia per gli studi compiuti sia per i pazienti che ogni giorno incontra nella sua attività. Ho tuttavia constatato che il tema interessa molti operatori sanitari: infermieri, volontari ospedalieri, psicologi, altri medici e anche persone che non svolgono direttamente professioni inerenti alla salute. La nostra associazione ha organizzato corsi e convegni a più livelli, diretti agli operatori sanitari (di ogni ordine e grado) e alla gente comune. Lei mi chiede se sono soddisfatto. Non si può mai essere soddisfatti. Abbiamo fatto molto, ma avrei voluto fare di più e mi auguro di poter operare ancora in questa direzione.

Quali sono, a suo giudizio, le mancanze culturali e organizzative in questo ambito?
Nei grandi ospedali, come il mio, non vedo grandi mancanze culturali. Ci siamo adeguati. Ovviamente non è così per tutti gli operatori sanitari e per tutti gli ospedali. Rileviamo che molti medici di base non sono ancora completamente informati sulle terapie possibili, così come numerosi farmacisti. Per esempio, quando prescriviamo oppiacei per via transcutanea, modalità oggi molto usata perché comoda per il malato ed efficace, spesso i medici di base o i farmacisti consigliano i pazienti di abbandonare la terapia, paventando l’assuefazione e altri rischi: tali paure sono del tutto ingiustificate, perché scientificamente non corrette e non rispondenti agli effetti di questo tipo di somministrazione.

Ha incontrato alcune difficoltà nello svolgimento della sua professione?
Noi algologi sappiamo come si cura il dolore, ma avremmo necessità di avere a disposizione un numero maggiore di medici, infermieri, ambulatori e altre risorse per trattare questi pazienti. Le difficoltà sono più che altro di ordine amministrativo. I DRG hanno l’effetto negativo di remunerare poco o per nulla alcune prestazioni che si svolgono al di fuori delle sale operatorie; l’attuale tendenza amministrativa è quella di ridurre, per risparmiare, l’entità e il numero di atti sanitari erogabili per un certo complesso e composito piano di cure, però rimborsato con un unico DRG.
Queste carenze, connesse alla scarsa remunerazione di alcune terapie analgesiche, ci angustiano ormai da tempo, perché limitano l’attività di algologo per esigenze di tipo finanziario–amministrativo (sia nel settore pubblico, sia nel privato convenzionato). Auspichiamo il superamento di tali problematiche con l’introduzione di nuove normative, che offrano la possibilità di riconoscere prestazioni anche in un Centro di Medicina del Dolore.

Molti ospedali, come il suo, hanno istituito il comitato “Ospedale senza dolore”. Ritiene che si debba fare ancora molto in questo senso?
Molti ospedali hanno costituito il comitato “Ospedale senza dolore”. Si tratta di un comitato di vari professionisti che hanno il compito di operare affinché in tutti i reparti si attuino quelle misure che consentano al paziente di “non soffrire”. Tuttavia, in molti ospedali è stato privilegiato il dolore oncologico, ma bisogna fare di più! Il dolore oncologico non è l’unico dolore. Esistono molti tipi di dolore cronico altrettanto gravi: le cefalee che tormentano gravemente per tutta la vita, il dolore miofasciale, il dolore neuropatico, eccetera. La cultura del dolore ormai è nella nostra società e mi auguro che nei prossimi anni si acquisiscano nuove competenze e maggiori possibilità attuative.

In queste settimane i media hanno dato molto spazio al tema del testamento biologico. Come ritiene dovrebbe essere affrontato questo problema?
Si tratta di un problema estremamente importante e grave che noi anestesisti rianimatori viviamo da sempre. Alcuni decenni fa il problema si poneva anche per la morte cerebrale, per la quale si è arrivati a una definizione precisa sia scientifica che legislativa. Anche per gli stati di coscienza ridotta e gli stati vegetativi, sarà necessario maggior approfondimento scientifico e normativo, ma non costrittivo. L’individuo umano è tale, perché possiede la coscienza di sé. Quando questa scompare in maniera definitiva, l’individuo non è più persona ma essere vivente. A mio giudizio, il medico deve comportarsi secondo scienza e coscienza, cercando di capire le vere condizioni, cioè lo stato clinico, e quali siano le intenzioni del paziente o quali fossero quando era in grado di pensare. Deve anche considerare la famiglia del malcapitato. Ci troviamo spesso di fronte a questi casi che sono ai confini della vita, della biologiae anche della morale. Ritengo sia necessario comportarsi in relazione al singolo caso, senza offrire il punto a scandali o a speculazioni politiche, a cui la medicina deve essere estranea.

Published
10th April 2009
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