Dolore cronico e terapia antalgica invasiva - Pathos

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Dolore cronico e terapia antalgica invasiva

Chronic pain and invasive therapy
Casi clinici
Pathos 2009, 16; 1; 2009, Mar 25
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Alessandro Rocco, Pierangelo Di Marco, Marta Luzi,
Alessandra Canneti, Carlo Reale
Dipartimento Scienze Anestesiologiche, Medicina Critica e Terapia del Dolore,
Università “La Sapienza”, Roma
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Riassunto  La revisione della scala OMS a “tre gradini” che guida la somministrazione della terapia del dolore cronico potrebbe prevederel’introduzione di un “quarto gradino”, comprendente le indicazioni cliniche alle tecniche antalgiche invasive. La popolazione di pazienti sottoposti a queste tecniche aumenta parallelamente all’evoluzione delle moderne oncologia e medicina palliative. Gli approcci invasivi più frequenti ed efficaci comprendono tecniche centrali (neuromodulazione midollare) e periferiche (neurolisi gangliare, tecniche di espansione vertebrale), agenti farmacologici (oppioidi e adiuvanti), chimici (alcool) e fisici (stimolazione elettrica, neurolisi termica). Raramente efficaci singolarmente, le tecniche antalgiche invasive trovano applicazione, in pazienti accuratamente selezionati, come integrazione della terapia farmacologica orale, al fine di minimizzare gli effetti collaterali derivanti da dosaggi elevati di oppioidi. Nel prossimo futuro, l’acquisizione di conoscenze sempre più approfondite nei campi della fi siopatologia del dolore cronico e della tecnologia biomedica procederà probabilmente di pari passo a un sempre più effi cace e puntuale ricorso a approcci analgesici di tipo invasivo.
Summary  The chronic pain “three-step” OMS ladder is likely to be revised, in order to introduce a “fourth step” including clinical indications for the invasive analgesic procedures. The number of patients who undergo such procedures is likely to increase, as well as modern oncology and palliative medicine development. Most of invasive approaches include central (spinal neuromodulation) and peripheral (gangliar neurolysis, percutaneous vertebral reduction) techniques, as well as pharmacological (opioids and adiuvants), chemical (alcohol) and physical (electrical stimulation, thermic neurolysis) means. Rarely effective as unique therapies, invasive procedures have to be accurately patient-selected and considered supplementary to conservative approaches, in order to minimize the adverse events deriving from a long term opioid therapy. In the near future, the development of both pain science and biomedical technology will probably be accompanied by the improvement of the knowledge regarding the recourse to invasive analgesic procedures.
Parole chiave Dolore, cure palliative, procedure invasive
Key words Pain, palliative care, invasive procedures

Introduzione
Nel 1986, l’Organizzazione Mondiale della Sanità propose l’utilizzo di una “scala” a tre gradini come guida per il trattamento del dolore neoplastico.1 Le regole indicate in questa scala garantiscono un adeguato controllo del dolore nel novanta per cento dei pazienti neoplastici e in più del settantacinque per cento di quelli terminali. L’aiuto clinico fornito dalla scala è essenziale, nella selezione dei farmaci da somministrare ex novo come nel timing di cambiamento di una strategia terapeutica in atto non più adeguata. Tuttavia, il ricorso alla scala OMS non è scevro da possibili carenze. Tra queste, per esempio, l’assenza di indicazioni cliniche per pazienti in cui la somministrazione orale o transdermica di oppioidi forti, anche a pieno dosaggio, non risulta più sufficiente e in cui l’inadeguato controllo del dolore si accompagna a effetti avversi intollerabili (sedazione, nausea e vomito, stipsi, confusione mentale). È proprio in questa luce che va presa in considerazione l’introduzione di un quarto gradino (“interventistico”) alla scala OMS, al fine di includere tra le opzioni terapeutiche antalgiche tecniche invasive quali i blocchi nervosi, la somministrazione (epidurale e/o subaracnoidea) di anestetici locali, oppiacei e a2-agonisti, la stimolazione midollare elettrica, l’esecuzione di procedure neurolesive (Figura 1).

Neuromodulazione farmacologica: analgesia spinale
La somministrazione spinale di oppioidi fa parte della pratica clinica sin dal 1979, quando la scoperta dell’abbondante presenza di µ-recettori a livello delle corna dorsali del midollo spinale portò Wang e colleghi2 a depositare morfina nello spazio subaracnoideo di pazienti neoplastici. Da allora, l’efficacia e la reversibilità dell’analgesia spinale hanno reso quest’ultima una tecnica sempre più utilizzata. Il tipo e il numero di farmaci utilizzati in sede perimidollare (subaracnoidea o epidurale) sono aumentati nel tempo, comprendendo oppiacei, anestetici locali, miorilassanti, a-2 agonisti, con ulteriore e ampio margine di sperimentazione. I farmaci somministrati per via perimidollare si comportano differentemente a seconda del loro rilascio in sede subaracnoidea o epidurale. La via subaracnoidea è infatti in diretta comunicazione con le radici posteriori del midollo spinale, al punto da richiedere dosaggi di oppiacei pari a un decimo di quelli necessari per via epidurale. Tale differenza non vale anche per gli anestetici locali: l’efficacia di questi ultimi è in funzione della loro concentrazione e del loro volume perimidollare, ma il volume di anestetico necessario per la diffusione epidurale del farmaco su diversi dermatomeri è nettamente maggiore rispetto alla via subaracnoidea.
La principale controversia concernente l’analgesia spinale riguarda la sua reale efficacia a lungo termine nel dolore non oncologico: la letteratura sottolinea, infatti, che il buon controllo del dolore fornito dagli oppiacei spinali a breve termine non appare altrettanto convincente a lungo termine, favorendo meccanismi di dipendenza nei pazienti affetti da dolore cronico.3-5 Come la somministrazione orale o parenterale di oppioidi risponde a un periodo più o meno lungo di adattamento posologico (“titolazione” del farmaco), così anche il ricorso a pompe perimidollari impiantabili in pazienti affetti da dolore cronico passa attraverso un accurato screening delle condizioni, non esclusivamente cliniche, che permettono di prevedere il successo dell’approccio invasivo (Tabella 1).
La somministrazione perimidollare di oppiacei si accompagna a inibizione pre-sinaptica dose-dipendente del rilascio di neurotrasmettitori dalle fibre nocicettive afferenti primarie C e A delta e a iperpolarizzazione post-sinaptica dei neuroni che trasmettono lo stimolo doloroso a livello delle corna dorsali del midollo spinale. Quando somministrati per via intratecale, gli oppioidi svolgono il loro effetto analgesico agendo anche sui propri recettori sopraspinali, a seguito della loro migrazione cefalica via liquor cefalorachidiano. La somministrazione perimidollare di oppioidi associa alla loro elevata efficacia analgesica dosaggi sensibilmente più bassi rispetto a quelli necessari per via orale o transdermica, limitandone così gli effetti collaterali che spesso per via sistemica ne condizionano l’utilizzo. Gli stessi effetti collaterali da oppioidi possono essere minimizzati dalla co-somministrazione perimidollare di altri analgesici, quali anestetici locali, a2-agonisti (clonidina) e ketamina. Gli anestetici locali bloccano reversibilmente i canali del sodio delle radici posteriori del midollo spinale. La clonidina inibisce il rilascio di neurotrasmettitori dalle fibre C e sopprime la risposta simpatica pre-gangliare. La ketamina antagonizza i recettori N-metil-Daspartato (NMDA) delle corna dorsali che mediano la cronicizzazione del dolore neuropatico.
Di recente applicazione in sede intratecale è lo ziconotide6, una tossina di origine ittica antagonista dei canali del calcio di tipo N ad azione presinaptica, in grado di sensibilizzare ad altri analgesici pazienti altrimenti low-responder. Il baclofen, agonista dei recettori dell’acido gamma-aminobutirrico (GABA), è efficace nel trattamento degli spasmi muscolari dolorosi refrattari.
La somministrazione intratecale di farmaci analgesici (intrathecal drug delivery, ITDD) è indicata per il trattamento del dolore neuropatico refrattario severo, del dolore nocicettivo e della spasticità in pazienti in cui i gravi effetti avversi della terapia orale rendono quest’ultima non più praticabile. Il rapporto di 300:1 tra potenza della morfina per via orale e via intratecale spiega i vantaggi dell’utilizzo di quest’ultima ai fini della minimizzazione degli effetti avversi da oppioidi, ulteriormente amplificata dal ricorso a eventuali co-analgesici. I sistemi di rilascio perimidollare di analgesici sono costituiti da due componenti fondamentali: un catetere e un dispositivo di rilascio del farmaco, o pompa. Qualche esempio:
- a basso costo: catetere perimidollare percutaneo con o senza tunnellizzazione sottocutanea; catetere percutaneo connesso a dispositivo iniettivo sottocutaneo (es. porta-cath, Figura 2).7
- a medio costo: catetere perimidollare impiantato connesso a pompa gestita dal paziente; catetere perimidollare totalmente impiantato connesso a pompa infusiva a flusso costante (Figura 3).8
- ad alto costo: catetere perimidollare totalmente impiantato connesso a pompa da infusione impiantata programmabile (Figura 4).7
Tutti i dispositivi indicati richiedono vigilanza accurata al fine di identificare eventuali infezioni o dislocazioni/disconnessioni del catetere. I sistemi totalmente impiantabili sono ottimali per l’utilizzo a lungo termine e si accompagnano a mobilità e funzionalità del paziente pressoché totali.

Neuromodulazione elettrica: stimolazione midollare
L’idea di modulare la trasmissione nervosa mediante uno stimolo elettrico risale all’antica Roma, quando Scribonio osservò che il dolore da gotta poteva essere alleviato dal contatto con una torpedine. L’interesse clinico per la stimolazione elettrica ha trovato supporto nella teoria del “cancello” di Melzack e Wall negli anni Sessanta.9 Tale teoria postula che la percezione del dolore è influenzata, in corrispondenza delle corna dorsali del midollo spinale, dall’interazione tra fibre nervose nocicettive di piccolo calibro e fibre non nocicettive di grosso calibro: la stimolazione, a voltaggi specifici, attiverebbe per via antidromica le fibre di grosso calibro che, “chiudendo” il cancello, bloccherebbero i segnali nocicettivi trasmessi dalle fibre di piccolo calibro.
Shealy10 impiantò il primo stimolatore midollare per il trattamento del dolore cronico nel 1967. La stimolazione midollare prevede l’utilizzo di un gruppo di contatti metallici stimolanti posizionati in corrispondenza dello spazio epidurale dorsale. La connessione dei contatti metallici con un generatore di impulsi genera un campo elettrico programmabile nella combinazione tra anodi e catodi. Il campo elettrico stimola antidromicamente gli assoni di grosso calibro delle colonne dorsali del midollo spinale, determinando la “chiusura del cancello” con conseguente blocco della trasmissione nocicettiva: inoltre attiva il funicolo dorso-laterale e le strutture sopra-spinali che danno origine alle vie discendenti anche nocicettive.11
La stimolazione ottimale si ottiene quando le parestesie che accompagnano la stimolazione si sovrappongono al territorio di distribuzione del dolore riferito dal paziente. Gli elettrodi stimolanti vengono impiantati sia sotto forma di cateteri cilindrici percutanei, sia sotto forma di piastre posizionate mediante intervento chirurgico (laminectomia o laminotomia). La sorgente degli stimoli, analoga per dimensioni a un pacemaker cardiaco, viene posizionata in un’apposita tasca sottocutanea e connessa agli elettrodi mediante tunnel sottocutaneo (Figura 5).8
Il dolore neuropatico di origine periferica e gli stati di dolore ischemico rappresentano attualmente le indicazioni più frequenti per questo tipo di approccio terapeutico. Come già detto per altre tecniche invasive, la selezione del paziente è la chiave per un’efficacia ottimale. Un dolore associato a una lesione o disfunzione del sistema nervoso (cosiddetto neuropatico), distribuito anatomicamente in modo da essere sovrapponibile al territorio di stimolazione (Tabella 2), presenta le caratteristiche di base necessarie alla valutazione per un approccio neuromodulatorio elettrico (Tabella 3).
Tra le sindromi più comunemente trattate in questo modo negli Stati Uniti sono il dolore radicolare cronico susseguente a chirurgia spinale fallita (Failed Back Surgery Syndrome, FBSS) e la sindrome dolorosa regionale complessa (Complex Regional Pain Syndrome, CRPS). Il dolore neuropatico causato da lesioni del sistema nervoso centrale tende a non rispondere alla stimolazione midollare.
Un trial di stimolazione preventivo, di solito eseguito mediante elettrodi percutanei, è necessario al fine di identificare i pazienti che possono trarre giovamento da questo tipo di approccio. Obiettivi del trial di stimolazione sono la riduzione dell’intensità del dolore del 50 per cento, la tolleranza delle parestesie indotte e la globale soddisfazione da parte del paziente, nonché la riduzione del dosaggio di farmaci analgesici. Possibili e frequenti complicanze dell’impianto includono la dislocazione e/o rottura dell’elettrodo, l’infezione, la cefalea post-iniezione durale; più gravi e rare la lesione meccanica delle radici nervose e l’ematoma o ascesso spinale.

Neurolisi
L’iniezione di sostanze neurolitiche per distruggere nervi e interrompere vie di trasmissione nocicettiva è stata utilizzata a lungo nella pratica clinica.12-15L’esito di tali procedure corrisponde essenzialmente alla sezione reversibile delle strutture nervose trattate, essendo la durata dl trattamento solitamente non superiore ai 3-6 mesi. Il ricorso alla neurolisi ha subito un sensibile ridimensionamento negli ultimi anni, sia per il miglioramento di altre tecniche (per esempio gli approcci invasivi spinali) che per la generale tendenza al miglioramento dell’aspettativa di vita nei pazienti affetti da cancro. Tuttavia, la neurolisi rappresenta ancora un’opzione clinica utile in molti pazienti neoplastici. La neurolisi è indicata nei pazienti affetti da dolore severo e non altrimenti
trattabile nei quali approcci antalgici meno invasivi siano inefficaci o intollerabili, sia per le gravi condizioni di base che per gli effetti avversi che ne possono derivare. Altra condizione necessaria alla neurolisi è la risposta positiva dell’area dolorosa a un blocco anestetico diagnostico preventivo, come avviene ad esempio con la neurolisi intercostale nel trattamento del dolore in un’area circoscritta come quella di una costa infi ltrata o coinvolta da metastasi. Come per altre tecniche invasive, anche nella scelta della neurolisi obiettivi primari devono rimanere la durata e la qualità della vita del paziente, dati i potenziali gravi effetti avversi cui l’analgesia da neurolisi può accompagnarsi in funzione delle strutture nervose coinvolte. La neurolisi è raramente permanente: la ripresa della sintomatologia dolorosa è conseguenza della spontanea riparazione delle strutture nervose trattate, o dalla progressione della patologia di base.
La neurolisi può essere chimica, fisica (termica) o chirurgica. Al giorno d’oggi, la neurolisi chimica avviene essenzialmente mediante fenolo e alcool. La popolarità dell’alcool è legata alla sua pronta accessibilità, puro o diluito al 50%. L’elevata incidenza di disestesia che accompagna il suo utilizzo lo rende preferibile nella neurolisi del plesso celiaco e/o in caso di aspettativa di vita limitata. Il fenolo viene comunemente utilizzato in concentrazioni comprese tra il 7 e il 12%. A concentrazioni più basse mostra un effetto anestetico locale reversibile che lo rende sostanzialmente inutile per effetti analgesici a lungo termine. La sua elevata affinità per le strutture vascolari ne limita l’applicazione in tecniche neurolitiche eseguite nelle immediate vicinanze a grossi vasi (come nel plesso celiaco), seppur l’iniezione di fenolo risulti meno dolorosa rispetto all’alcool.
Il ricorso ad agenti neurolitici su nervi periferici rappresenta un fronte clinico potenzialmente importante. Nel caso della metastasi costali, un controllo del dolore completo può essere ottenuto mediante l’iniezione di fenolo al 7 o 10% su tre o quattro livelli costali. Analogamente, nelle ripetizioni pelviche/perineali, il blocco dei nervi sacrali è una procedura relativamente semplice utilizzabile nel dolore perineale susseguente a resezione addomino-perineale (S4-S5) o nel dolore da cancro del retto (S4). La neurolisi fisica è risultato dell’effetto lesivo, più o meno reversibile, dell’applicazione di energia termica a basse o elevate temperature sulle strutture nervose coinvolte nella patogenesi di una sindrome dolorosa non altrimenti trattabile. La crioanalgesia sfrutta l’effetto Joule-Thompson di espansione di gas compressi e portati a temperature inferiori ai -75°. E’ una tecnica sicura, priva di effetti disestesici post-procedura e caratterizzata da preservazione del neurolemma, essenziale ai fini della rigenerazione dei nervi. Anche per questo, l’effetto crioanalgesico è spesso di breve durata. La neurolisi da radiofrequenza ha guadagnato popolarità clinica grazie alla possibilità di produrre, per via percutanea, lesioni nervose da calore tanto circoscritte quanto anatomicamente selettive. È di recente valutazione scientifica l’attribuzione dell’effetto neurolesivo da radiofrequenza non esclusivamente al calore prodotto, ma anche al campo elettromagnetico che accompagna quest’ultimo. L’importanza del ruolo del campo elettromagnetico è sottolineata dal fatto che campi pulsati a radiofrequenza sono attualmente in fase di studio per la capacità di produrre lesioni nervose non convenzionali prive di effetti neuritici e/o lesivi per le strutture circostanti il campo di applicazione.

Neurolisi chimica: blocco del sistema simpatico
La catena gangliare del sistema simpatico decorre lungo la colonna vertebrale, anatomicamente aggredibile con diversi approcci analgesici invasivi in funzione di sindromi dolorose specifiche (Figura 6).16 La catena del simpatico trasporta diverse informazioni nocicettive: il blocco selettivo di determinati gangli può funzionare sul dolore viscerale e su quello mediato dallo stesso sistema simpatico, al punto da rendere questo approccio una relativamente semplice quanto utile opzione per la diagnosi e il potenziale controllo del dolore. Il ganglio cervicotoracico (fusione dei gangli cervicale inferiore e toracico superiore, altrimenti noto come ganglio “stellato”) può essere facilmente bloccato mediante l’iniezione di anestetico locale a livello di C6 per il trattamento, tra gli altri, del dolore facciale omolaterale, della sindrome dolorosa post-mastectomia, della sindrome di Pancoast. Il dolore addominale può essere controllato mediante il blocco del plesso celiaco, responsabile delle afferenze nocicettive provenienti dall’intero comparto viscerale (a eccezione del colon discendente e degli organi pelvici).
Il blocco del plesso celiaco viene utilizzato principalmente per il controllo del dolore associato al tumore del pancreas, ma risulta utile anche per il dolore proveniente da tutti gli organi addominali superiori. Anche se non privo di efficacia nel dolore non neoplastico, la sua applicazione migliore riguarda il dolore neoplastico endo-addominale. Si tratta di tecnica relativamente semplice e sicura
sotto guida TC, con approcci anteriore (anche eco-guidato), posteriore (blocco retrocrurale o, più correttamente, splancnico) (Figura 7) o transaortico.17
Il blocco del plesso celiaco si accompagna a riduzione della sintomatologia dolorosa addominale, a riduzione dei dosaggi e degli effetti avversi da oppioidi e a miglioramento dei parametri di qualità della vita.18 Tra le tecniche antalgiche invasive, il blocco neurolitico celiaco è la procedura ablativa più largamente studiata nel trattamento del dolore neoplastico. L’agente più comunemente utilizzato è l’alcool, puro o al 50%, o il fenolo, con durata analgesica dell’ordine di alcuni mesi. I gangli simpatici lombari ricevono informazioni nocicettive dagli arti inferiori e dagli organi pelvici omolaterali. Il blocco può essere eseguito mediante singola iniezione a livello di L2, sede del ganglio solitamente più attivo.
Tra le più recenti acquisizioni, particolarmente utile appare il blocco del ganglio ipogastrico superiore secondo Plancarte19 per il trattamento del dolore pelvico. Questo ganglio trasmette informazioni nocicettive provenienti dall’intera pelvi, a eccezione del terzo distale delle tube di Falloppio e delle ovaie: il suo blocco è efficace nel dolore della cervice uterina e per tutto il dolore di origine pelvica con l’esclusione di quello ovarico. L’ampia e variabile distribuzione anatomica del ganglio ipogastrico inferiore ne rende impossibile il blocco.
Il ganglio di Walther, unico ganglio solitario della catena simpatica, è localizzato in corrispondenza della giunzione sacrococcigea: bloccarlo appare di una qualche efficacia per il controllo del dolore perineale.

Neurolisi termica: sindrome della faccetta articolare
Il dolore di origine spinale rappresenta la sindrome dolorosa cronica non neoplastica più frequente in assoluto. La scarsa comprensione della fisiopatologia del low back pain, la carenza di tecniche diagnostiche accurate e la difficoltà di progettare studi clinici sull’efficacia dei possibili trattamenti hanno impedito un concreto progresso terapeutico in questo campo.
Le faccette articolari sono state indicate come possibile sorgente anatomica dellow back pain da Ghormley sin dal 1933. Il processo articolare inferiore (faccetta articolare inferiore) di ciascuna vertebra contrae rapporto con il processo articolare superiore (faccetta articolare superiore) della vertebra sottostante, con l’ausilio di una capsula fi brosa localizzata postero-lateralmente. Queste piccole  articolazioni sono raggiunte da terminazioni nervose provenienti dalla branca mediale dei rami posteriori delle radici spinali.
Studi radiologici di larga scala hanno dimostrato che le modifi cazioni artrosiche di queste articolazioni sono frequenti in pazienti asintomatici e quindi non correlabili all’eziopatogenesi del low back pain.20-23
A partire dagli anni Settanta, il successo riportato da alcuni autori mediante la denervazione da radiofrequenza delle branche mediali ha ravvivato l’interesse per le faccette articolari come target per il trattamento del dolore cervicale e lombare. Tuttora motivo di controversia, i criteri clinici per la sindrome della faccetta articolare includono l’età avanzata, il sollievo dal dolore mediante riposo, l’esacerbazione del dolore in estensione ma non in flessione, la locale debolezza alla palpazione dei tessuti sovrastanti l’articolazione dolorosa, l’assenza di dolore agli arti inferiori e il rilievo radiologico di faccette ipertofiche.

Vertebroplastica e cifoplastica
La popolazione anziana porta con sé sfide cliniche sempre nuove, tra cui più di altre è andata crescendo per importanza l’osteoporosi, una delle più debilitanti quanto ancora sottovalutate patologie dell’età avanzata. La National Osteoporosis Foundation stima che più del 55 per cento degli americani di età superiore ai 50 anni è affetto da osteopenia e/o osteoporosi. Le donne costituiscono la fetta di popolazione più ampia, comprendendo l’80 per cento circa dei pazienti osteoporotici.24-25 Il segno distintivo dell’osteoporosi è rappresentato dalle fratture da fragilità ossea. Le tre localizzazioni tipicamente coinvolte da fratture da fragilità sono le vertebre, l’anca e il polso. Con un’incidenza annuale di 700.000 casi, le fratture da compressione vertebrale sono più frequenti delle fratture di anca e caviglia messe insieme.26 I pazienti affetti da frattura vertebrale da compressione riferiscono spesso dolore tale da interferire con la vita quotidiana: a essi si devono 150.000 ricoveri in ospedale, 161.000 visite del medico di famiglia e più di 5 milioni di giorni di riposo forzato all’anno complessivamente. Nel 1995, i costi diretti derivanti da fratture osteoporotiche hanno raggiunto nei soli Stati Uniti i 13,8 miliardi di dollari, pari a 38 milioni di dollari al giorno.27-28
Le fratture da compressione vertebrale si accompagnano frequentemente a dolore sia acuto che cronico, parallelamente a un progressivo collasso vertebrale. Una frattura da compressione toracica è in grado di determinare una cifosi sagittale tale da causare una perdita del 9 per cento della capacità vitale forzata, per non menzionare il rischio aumentato di comorbidità multiple quali la perdita di peso dovuta a sazietà precoce e la perdita del tono dell’umore.29-31Sebbene queste fratture rappresentino raramente una causa diretta di morte, producono frequentemente morbidità significative che possono incrementare il rischio di morte complessivo. La sopravvivenza a 5 anni di un paziente che subisce una frattura da compressione vertebrale è inferiore a quella di un paziente simile che superi una frattura di femore.32 Ancora più frequentemente, pazienti anziani autonomi prima della frattura diventano dipendenti dopo l’evento.33 In passato, tentativi per un trattamento chirurgico a cielo aperto di queste lesioni sono stati accompagnati da risultati disastrosi, sia per la cattiva qualità del tessuto osseo che per le comorbidità di pazienti spesso in cattive condizioni generali. Da questo è derivato il ricorso conservativo ad analgesia farmacologica e a interventi ortesici. Gli scarsi risultati ottenibili con gli approcci conservativi hanno portato all’elaborazione di nuovi metodi per il controllo del dolore e per un recupero funzionale tali da restituire i pazienti alle loro attività quotidiane.

Vertebroplastica
La vertebroplastica, o riduzione vertebrale percutanea, consiste nell’iniezione di cemento osseo all’interno di una frattura da compressione vertebrale al fine di ridurre la frattura stessa e di recuperare lo spessore del corpo vertebrale, minimizzando così la cifosi sussistente. Il tipico paziente candidato a vertebroplastica ha già visto fallire diverse settimane di trattamento conservativo a base di farmaci antiinfiammatori non steroidei e/o oppioidi deboli, e/o supporti ortesici. Il primo obiettivo è la mobilità. I pazienti osteoporotici presentano un rischio di comorbidità direttamente proporzionale al tempo di immobilità. Esistono tuttora controversie riguardo al numero esatto di settimane o mesi di terapia conservativa che devono precedere il ricorso alla vertebroplastica. Alcuni medici propongono quest’ultima precocemente ai pazienti in cui la frattura si accompagna a evidente immobilità. Nei pazienti mobili e affetti da dolore si aspettano solitamente dalle 4 alle 6 settimane.27 Alcuni tipi di fratture migliorano con meno probabilità di altre con la sola terapia conservativa, quali quelle della giunzione toraco-lombare (T11-L2), quelle a cuneo con angolo sagittale anteriore superiore ai 30°, quelle caratterizzate da collasso osseo in progressivo peggioramento durante controlli radiografi ci successivi.27 Nonostante la sensazione che la vertebroplastica sia tecnica efficace, non per questo è scevra da limitazioni di applicazione e controindicazioni relative. Pazienti caratterizzati da distruzione della corticale che impedisce la persistenza del cemento all’interno della vertebra non dovrebbero essere sottoposti a vertebroplastica. Pazienti che riferiscono sintomatologia dolorosa radicolare pre-esistente alla frattura vengono spesso sconsigliati per gli scarsi risultati. In presenza di vertebra plana o collasso vertebrale completo, qualunque tecnica di vertebroplastica è di difficile esecuzione. Il livello vertebrale di procedura viene verificato sia mediante radiografia del rachide pre-operatoria che mediante amplificatore di brillanza subito prima dell’introduzione della cannula. La disponibilità di immagini precise è essenziale al fine di iniettare con altrettanta precisione il cemento. Le immagini in tempo reale fornite dall’amplificatore consentono di visualizzare non solo l’esecuzione dell’iniezione, ma anche il potenziale stravaso del cemento, complicanza più probabile della manovra.34 Quest’ultima viene solitamente eseguita in anestesia locale accompagnata da sedazione cosciente. Dopo una piccola incisione cutanea, un trocar cannulato contenente un ago da biopsia ossea viene fatto avanzare verso la superfi cie posteriore della vertebra. Dal peduncolo, la cannula viene spinta verso il corpo vertebrale da trattare. Entrambe le proiezioni laterale e anteroposteriore sono necessarie per la corretta visualizzazione del percorso della cannula. L’iniezione va completata entro 6-8 minuti, prima che il cemento diventi eccessivamente viscoso. Il cemento comincia ad agire entro 20 minuti, ottenendo il 90 per cento della sua forza entro un’ora dall’iniezione (Figura 8).

Cifoplastica
La possibilità di iniettare cemento ad elevata viscosità all’interno di tessuto osseo trabecolare fratturato viene considerato spesso rischioso dai chirurghi del rachide. In particolare, il timore principale è rappresentato dalle possibili ripercussioni neurologiche derivanti dall’eventuale stravaso di cemento, peraltro accompagnato dalla potenziale penetrazione di emboli di cemento iniettato a pressione nei vasi venosi paravertebrali. I dubbi relativi anche alla qualità della riduzione della frattura ottenuta mediante vertebroplastica ha portato all’elaborazione e all’introduzione nella pratica clinica, nel 1998, della cifoplastica. Procedura solitamente eseguita in anestesia generale (posizione prona), la cifoplastica consiste nell’introduzione, sotto controllo fluoroscopico, di un catetere palloncino nello spessore del corpo della vertebra fratturata. Dopo aver gonfiato il palloncino fino alla completa riduzione della frattura, lo stesso viene rimosso dal corpo vertebrale affinché le cavità ossee rimanenti vengano riempite mediante cemento (Figura 9). Vantaggi principali della cifoplastica rispetto alla vertebroplastica sono il rischio ridotto di stravaso extra-osseo di cemento e la possibilità di ridurre fratture vertebrali anche modeste, pur a fronte di una tecnica di esecuzione più complessa. Le possibili complicanze delle tecniche di riduzione vertebrale percutanea sono riportate nella Tabella 4.

Conclusioni
I pazienti candidati a tecniche antalgiche invasive o “interventistiche” sono invariabilmente affetti da gravi sindromi dolorose. Il ricorso a metodiche antalgiche personalizzate quanto selezionate offre la possibilità di garantire un controllo del dolore più efficace. Queste metodiche non sostituiscono le modalità farmacologiche e non farmacologiche messe già in atto per trattare il dolore cronico: il loro ruolo va considerato come complementare. La somministrazione intratecale di oppioidi, la neurolisi del plesso celiaco, la stimolazione midollare e la neurotomia a radiofrequenza hanno tutte dimostrato efficacia analgesica e capacità di limitare l’esposizione del paziente agli effetti avversi sistemici causati dalle terapie conservative. Aspetto centrale dell’applicazione di queste tecniche è la corrispondenza tra il trattamento proposto e le esigenze individuali del paziente: il blocco nervoso diagnostico preventivo mediante anestetici locali e l’esecuzione di trial di stimolazione midollare o di somministrazione intratecale temporanea di oppioidi amplificano la probabilità di successo terapeutico. Ulteriori progressi clinici deriveranno da una conoscenza ancora più accurata e profonda della correlazione tra sintomatologia dolorosa e fisiopatologia del dolore, nonché dalla ancor più precisa comprensione del meccanismo d’azione delle stesse tecniche antalgiche invasive.

Published
25th March 2009
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