Empatia, neuroscienze e dolore - Pathos

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Empatia, neuroscienze e dolore

Empathy, neurosciences and pain
Review
Pathos 2010, 17; 3; 2010, Sep 18
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Marco Lacerenza, Chiara Cerami
Dipartimento di Neuroscienze Cliniche,
Ospedale San Raffaele - Ville Turro, Milano
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Riassunto La capacità di comprendere lo stato mentale e di immedesimarsi nell’esperienza emotiva altrui, ovvero di mostrare una risposta empatica, costituisce la base della vita sociale e il fondamento della relazione tra il medico e il paziente che soffre. L'empatia è una motivazione forte che spinge l’uomo all’aggregazione sociale e lo aiuta a tessere legami affettivi con i propri simili. Sin dalla metà dell’Ottocento, pur essendo stata riconosciuta l’esistenza di una intelligenza emotiva che guida il comportamento sociale, l’empatia è stata spesso intesa come un epifenomeno privo di specifica base scientifica piuttosto che come una vera e propria funzione cognitiva. Molti studiosi si sono a lungo interrogati sull’argomento ma, solo negli ultimi decenni, le neuroscienze sociali hanno iniziato a far luce su questa materia, documentando l’importanza di questa capacità relazionale, non solo per il singolo individuo ma soprattutto per l’intera collettività.
Summary The comprehension of other peoples’ mental condition and the identification with their emotional experience are not only the basis of social life but also the foundation of the relationship between the health worker and and ill patient. Empathy pushes people to join up together and helps them in establishing emotional and social relationships with others. Although the value of empathy was already recognised in the 1850’s, it has often been considered as an epiphenomenon only, without any scientific ground, rather than an actual cognitive function. Scientists have investigated empathic capacity for a long time but, just recently, social neuroscience has shed light on this subject, showing its importance not only for the individual but above all for the whole community.
Parole chiave Dolore, empatia, relazione medico-paziente
Key words Pain, empathy, physician-patient relationship

Origini dell'empatia
L'analisi etimologica del vocabolo empatia ci consente di comprenderne meglio l’essenza. Il termine trae origine dal greco έμπαθεια (soffrire dentro) quale espressione della capacità di immedesimarsi nella sofferenza altrui senza però viverla in prima persona. Va pertanto a contrapporsi al concetto di συμπάθεια che vede l'individuo protagonista di un’esperienza di sofferenza condivisa con un suo simile. Il significato attuale del termine empatia deriva del verbo tedesco fühlen (sentire) e originariamente faceva riferimento al processo di apprezzamento e identificazione con il bello naturale e artistico. In questa accezione per empatia si intendeva che il soggetto proiettasse i propri sentimenti ed emozioni per comprendere l’oggetto della sua contemplazione che poteva essere un dipinto, una musica o un paesaggio. Dalla seconda metà del XIX secolo, questo significato fu traslato, dalla filosofia e dalla neonata psicologia, agli esseri umani per giungere al concetto odierno. In quest’ottica di dualità senza identificazione, l’empatia appare quindi la capacità chiave che interviene nelle relazioni interpersonali e in particolar modo in quella terapeutica, permettendo al medico di comprendere le sofferenze del paziente senza venirne sopraffatto.

Evoluzione dell'empatia
Nel corso degli ultimi decenni le neuroscienze sociali hanno approfondito, con  tecniche neurofisiologiche e di neuroimaging  funzionale le conoscenze anatomiche e fisiologiche che sottendono alla capacità di comprendere i pensieri e le emozioni dell’altro. La nostra abilità di capire pensieri, credenze e intenzioni altrui fa capo alla “teoria della mente”, anche detta mentalizzare o lettura della mente, e consiste nell’adottare il punto di vista dell’altro attraverso un processo cognitivo evoluto. La capacità di condividere le emozioni dell’altro si definisce empatia e può essere grossolanamente suddivisa in due componenti: una componente, più antica, emotiva, che fa riferimento alle aree cerebrali attivate dalle emozioni nel self, e una componente cognitiva che può essere riassunta nel termine consapevolezza di sé, che ci permette di comprendere che l’emozione/sensazione che stiamo provando non fa parte del self ma dell’altro individuo con cuiabbiamo una relazione.1 La sensazione di condivisione immediata dello stato d’animo altrui, che non richiede alcuna comprensione esplicita dei motivi di sofferenza, costituisce la componente emotiva ell’empatia. Filogeneticamente più antica, quest’ultima corrisponde al contagio emotivo o emotional concern. Questa funzione, presente anche negli uccelli, appare nei bambini fin dai primi mesi di vita. Ciò fa sì che, in una nursery, il neonato che sente piangere gli altri bambini pianga a sua volta anche senza apparente motivo. Allo stesso modo gli adulti possono provare disagio assistendo al dolore altrui, talvolta non riuscendo a distinguere l’origine esterna della loro sofferenza. Il contagio emotivo altro non è che una capacità automatica di fare propria l’emozione dell’altro e viverla intensamente come se appartenesse al proprio  vissuto: l’individuo da osservatore diviene protagonista dello stato d’animo altrui e ne viene travolto con tutta la sua intensità. Questo meccanismo automatico di tipo bottom-up information processing,2 tipico dell’infanzia, può essere considerato una sorta di precursore della relazione empatica e nasce dalla tendenza naturale e involontaria a immedesimarsi nei gesti, movimenti ed espressioni altrui.3 É una forma di imitazione spontanea e inconsapevole presente negli esseri umani (“io sento ciò che tu senti”), così come in altre specie animali, che ha probabilmente contribuito a originare la tendenza all’aggregazione sociale e alla solidarietà interindividuale anche prima della formazione del linguaggio. Nel corso della crescita intellettuale dell’essere umano, questo fenomeno viene integrato da processi top-down sempre più sofisticati:2 quanto più adulto diviene l’individuo tanto più acquisisce la capacità di distinguere il sé dall’altro, riuscendo a vivere l’esperienza emotiva altrui come distinta dalla propria (“io  capisco quello che tu provi”). In questa maniera si può partecipare allo stato d’animo altrui, mettendosi nei panni dell’altro e cercando di comprenderne il punto di vista, senza che tuttavia ciò comporti uno stress emotivo. La consapevolezza di sé matura fisiologicamente nel corso della vita, dall’epoca neonatale fino all’età adulta. Tuttavia, anche una volta raggiunto il traguardo della  maturità, essa può continuare a modificarsi sulla base delle esperienze personali e della capacità individuale di introspezione. La capacità di empatia ha sicuramente una componente geneticamente determinata e pertanto vi saranno soggetti maggiormente predisposti al contatto empatico rispetto ad altri.
È altresì vero che questa funzione possa essere oggetto di evoluzione in relazione a un allenamento specifico, oltreché alle diverse esperienze di contatto con gli altri individui e l’ambiente che ci circonda.

Il sistema dei neuroni mirror
Nella sua componente emotiva l’empatia appare strettamente correlata al funzionamento dei neuroni specchio (mirror  neurons). Questo sistema di neuroni, per la prima volta identificato nella corteccia premotoria del macaco (area  F5) da  ricercatori  italiani,4 ha la particolarità di attivarsi non solo quando l’animale compie una data azione, bensì anche quando osserva un suo simile compiere la stessa azione. Le recenti tecniche di neuroimaging funzionale hanno consentito di identificare nell’uomo un sistema neuronale fronto-parietale, sovrapponibile per funzione a quello osservato nel macaco.5 Esso si localizza in specifiche aree corticali e sembra essere fondamentale non solo per i processi di comprensione delle azioni e apprendimento mediante imitazione, ma anche per i meccanismi di immedesimazione empatica tra individui simili. L’osservazione di azioni compiute da un altro soggetto della stessa specie attiva infatti nell’osservatore le aree cerebrali motorie, responsabili della rappresentazione dell’atto motorio stesso.6
L’essenza di questo affascinante sistema neuronale consta proprio nella capacità di sintetizzare percezione ed esecuzione dell’azione, by-passando le aree associative di livello superiore. Esso rappresenterebbe quindi un'alternativa per i meccanismi di percezione dell’azione. Tale sistema tuttavia non si trova solo nei centri del movimento, bensì anche in aree che mediano risposte emotive.7 In accordo con il modello “percezione-azione  dell’empatia”, di Preston e de Wall,8 la percezione nell’altro di uno stato emotivo attiva automaticamente nell’osservatore le aree di rappresentazione dell’emozione in questione, generando un adeguato comportamento emotivo. Osservare un’emozione sul volto di un altro provoca l’attivazione del sistema specchio motorio ed emotivo con un pattern di attivazione simile a quello che si avrebbe nel caso di un'esperienza vissuta in prima persona.9 Osservare, per esempio, il disgusto sul volto di un altro soggetto attiverebbe le stesse aree che si mettono in azione quando lo si prova in prima persona, ovvero l’insula e la corteccia cingolata anteriore.10 La proprietà essenziale del sistema specchio è la risonanza interiore, ovvero la capacità di replicare internamente gli aspetti percettivi, motori ed emotivi delle esperienze vissute dalla persona osservata.11 Essa non é limitata ad azioni viste o udite, ma si estende anche al restante ambito sensoriale e affettivo. Il sistema che fa “risuonare” nella mente e nel corpo del singolo il vissuto degli altri, consentendo di saggiare interiormente le emozioni di chi ci sta attorno, è inoltre integrato da un meccanismo, incentrato su amigdala e insula, che ne definisce l’intensità di attivazione. Alla luce delle più recenti evidenze, il sistema dei neuroni mirror sembra quindi essere composto da due principali network: il primo, prettamente motorio, costituito da lobulo parietale inferiore, corteccia premotoria e giro frontale inferiore e l’altro, più propriamente emotivo, da insula e corteccia cingolata anteriore.12

Empatia e dolore
Nella relazione con i pazienti con dolore, spesso una domanda sembra emergere dal loro volto: “Questo medico, che non conosco, capirà il mio dolore? Sarà in grado di comprendere la mia sofferenza e quindi allontanarla da me?”. Il primo bisogno che il paziente sofferente manifesta con il suo sguardo è quello di una relazione empatica con la persona che dovrebbe prendersi cura di lui. Il paziente cerca nel medico la capacità di mettersi in una relazione ricca d’ascolto che generi fiducia e motivazione. Questa favorirà nel paziente il superamento delle difficoltà (indagini diagnostiche disturbanti, eventi avversi di procedure o terapie) che spesso si frappongono tra il percorso diagnostico-terapeutico e l’attenuazione/risoluzione della sofferenza. Questa qualità d’ascolto, quando si esprime al meglio, può diventare una comprensione e un rispecchiamento dell’altro focalizzati non solo sulle parole e sulle manifestazioni corporee (mimica, postura, gestualità, movimento), ma anche sullo stato d’animo e sui sentimenti più profondi. Questa disposizione d’animo richiede quindi una capacità introspettiva e un’alta qualità nell’osservazione di sé e dell’altro coniugata a curiosità e interesse per le relazioni umane. Il risultato di questo sofisticato tipo di relazione e quindi la percezione di comprensione, e presa in carico da parte del paziente, può generare una fiducia nel medico e nelle terapie proposte che andrà ad amplificarne l’efficacia. Il dolore è definito dalla IASP (International Association for the Study of Pain) come “un’esperienza  sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno”.13 Pertanto possiamo dire che quest'esperienza è il frutto di un'intima compenetrazione tra la dimensione sensori-percettiva (riguardante il tipo, la durata e la sede del dolore) e quella affettivo-motivazionale (relativa alla causa della possibile spiacevolezza o del turbamento indotto dal dolore) integrate da una struttura psichica plasmata dalla genetica, dalle esperienze di dolore personali nonché da molteplici fattori sociali e religioso-culturali. La comprensione della sofferenza altrui può essere ricollegata al modello di “percezione-azione”.8 Tania Singer, che ha dedicato gran parte della sua carriera allo studio dell’empatia, ha pubblicato su Science nel 2004 un interessante studio di neuroimaging funzionale (fMRI) condotto su un gruppo di sedici coppie di innamorati.14 I soggetti venivano sottoposti a fMRI, mentre era applicato all’uno o all’altro componente della coppia uno stimolo elettrico doloroso sul dorso della mano. Tramite un sistema di specchi era visibile la mano del partner durante lo stimolo doloroso. L’esperienza diretta del dolore attivava le aree di riconoscimento e discriminazione dello stimolo nocicettivo (talamo, corteccia sensitiva primaria e secondaria  controlaterali), nonché di integrazione dell’esperienza emotivo-sensoriale (insula posteriore bilateralmente e porzione caudale della corteccia del cingolo anteriore). Altre aree, coinvolte nella percezione del dolore e legate all’integrazione affettiva, vegetativa e motivazionale dello stimolo doloroso, venivano invece attivate sia nell’esperienza diretta sia nella percezione empatica del dolore dell’altro (porzione rostrale della corteccia del cingolo anteriore, insula anteriore bilateralmente, porzione laterale del cervelletto e dorsale del ponte). Lo studio ha inoltre dimostrato che i soggetti con punteggi più elevati, alle scale comportamentali che valutano l’empatia, avevano anche un’attivazione maggiore delle aree cerebrali coinvolte nei meccanismi empatici. Il dolore a lungo considerato un’esperienza privata, ha quindi una dimensione sociale: colui che vive l’esperienza dolorosa e colui che la osserva condividono parte della stessa rappresentazione emozionale. Alla luce di tali  evidenze, l’insula e la corteccia cingolata anteriore si confermano ancora una volta aree di primaria importanza nei  meccanismi  di  empatia  emotiva, come del resto è dimostrato anche in altri lavori.15-17
In un recentissimo lavoro di neuroimaging funzionale,18 utilizzando un sofisticato paradigma di presentazione di fotografie che rappresentano parti del corpo sottoposte o meno a stimoli dolorosi, è stato dimostrato che esiste una  dissociazione funzionale a favore delle aree fronto-insulari rispetto alla corteccia cingolata anteriore nell’elaborazione dell’empatia per il dolore nell’altro. Il  paradigma utilizzato ha permesso di svelare questa dissociazione attraverso la concomitante richiesta, durante la stimolazione proposta, di compiti cognitivi focalizzati sul giudizio di presenza o meno di dolore o di quale lato fosse stimolato. Questo dato supporta la teoria di Craig,19 sulla base della quale la corteccia frontoinsulare inizialmente identifica  la stimolazione dolorosa omeostaticamente più significativa, integrandola come informazione altamente enterocettiva, rispetto alla rappresentazione del mondo esterno, successivamente la corteccia cingolata anteriore trasforma questo complesso segnale percettivo/valutativo in un controllo volontario su scelte comportamentali. In una serie di studi neurofisiologici, condotti da un gruppo di ricercatori italiani, è stato inoltre dimostrato un possibile coinvolgimento della corteccia sensitiva nel meccanismo di percezione  empatica del dolore altrui.20-22 Mediante stimolazione magnetica transcranica è stato documentato come la visione di aghi che penetrano la mano o il piede di un’altra persona produca nell’osservatore una riduzione della eccitabilità cortico-spinale motoria per il muscolo interessato. L’osservazione del dolore sembra quindi modificare la rappresentazione sensitivo-motoria oltre che attivare le aree connesse al significato emozionale del dolore.23
Anche altri studi, condotti con la fMRI, hanno dimostrato l’attivazione della corteccia somatosensoriale durante il processo empatico per il dolore nell’altro.24 Questo studio dimostra l’importanza del contesto sociale nel fenomeno empatico; la presenza di un altro individuo modula positivamente la tendenza all’attivazione di aree deputate all’interazione sociale, al controllo delle emozioni e alla consapevolezza di sé (la giunzione temporo-parietale, la corteccia prefrontale mediale, il giro frontale inferiore e la corteccia orbito-frontale). Perché allora spesso è difficile stabilire una relazione empatica con chi soffre? La risposta sta proprio nell’enorme impatto emotivo che il dolore dell’altro ha su ognuno di noi. Il contagio emotivo viene spesso sperimentato, con tutta la sua forza, dal medico e in genere da tutti gli operatori sanitari. Esso evoca meccanismi di difesa che hanno come scopo, più o meno cosciente, quello di allontanare a ogni costo la sofferenza emotiva. La possibilità di passare dal contagio emotivo a un più consapevole utilizzo della risonanza affettiva, risiede nello sviluppo di funzioni psicologiche più elaborate, mediate dall’attivazione di aree cerebrali filogeneticamente più recenti.
È necessario quindi addentrarsi nelle componenti più evolute dell’empatia per trasformare un atto automatico in uno volontario e pertanto modulabile. Queste caratteristiche del processo empatico hanno bisogno di un sistema esecutivo allenato a regolare e modulare l’esperienza emotiva attraverso un’elaborazione di tipo top-down.2
Un recentissimo studio di Decety e collaboratori,22 attraverso l’impiego dei potenziali evento correlati, dimostra che la presentazione di immagini di parti del corpo, a cui è stato applicato uno stimolo doloroso (puntura con ago) o non doloroso, evoca delle risposte neurofisiologicamente diverse in un gruppo di medici rispetto a un gruppo di controllo. Questo lavoro suggerisce che, nei medici, la modulazione delle emozioni avvenga precocemente nell’elaborazione bottom-up della percezione del dolore nell'altro. Questo dato sarebbe supportato dall’assenza delle componenti frontali precoci (110 msec) dei potenziali evento correlati. Lo studio dimostra inoltre una differenza nella risposta neurofisiologica tra medici e controlli anche nell’elaborazione cognitiva  più  tardiva (>380 msec) del dolore nell’altro che si esprime a livello frontale e al vertice. Resta ovviamente da stabilire se questa particolare risposta neurofisiologica ottenuta nei medici correli positivamente o meno con una empatia percepita nel paziente.

Le basi neurali dell'empatia
ll networking coinvolto nella genesi delle risposte empatiche è piuttosto complesso e articolato. Recenti evidenze suggeriscono l’esistenza di due sistemi distinti con crescente grado di complessità. Uno studio pubblicato nel 2009 su Brain,25 condotto su individui  affetti  da  patologia  neurologica  lesionale, ha dimostrato il ruolo chiave del  giro frontale inferiore (IFG) e della corteccia prefrontale ventromesiale (VM) nel funzionamento degli aspetti rispettivamente emotivi e cognitivi dell’empatia, documentando sorprendentemente una doppia dissociazione anatomica e funzionale tra le due componenti. La VM sembra essere di grande importanza per l’esecuzione di tutti i compiti di teoria della mente, sebbene non sia del tutto indispensabile, come dimostrato da alcuni casi in cui il danno prefrontale non ha comportato deficit ai task di teoria della mente.23 L'attività delle aree prefrontali si coordina con strutture filogeneticamente più antiche, quali la corteccia cingolata anteriore, l’insula e l’amigdala, deputate  alla generazione di stati emotivi soggettivi in risposta a stimoli esterni nonché all’integrazione di informazioni affettive e cognitive. A tal proposito, sono state dimostrate difficoltà nel riconoscimento delle emozioni altrui, in particolar modo della  paura, in individui affetti da lesioni bilaterali dell’amigdala.26-29 Tale compromissione, non essendo specifica per una singola modalità sensoriale, suggerisce un coinvolgimento dell’amigdala nella rappresentazione polisensoriale degli stimoli emotivi e sociali. Recenti acquisizioni nel campo delle neuroscienze sociali hanno dimostrato il possibile coinvolgimento di altre aree cerebrali nella corretta genesi dei meccanismi di teoria della mente. Tra tutti spicca il ruolo della giunzione temporo-parietale destra.30 In particolare, la corteccia  parietale  inferiore  destra  alla giunzione con la corteccia temporale posteriore (giunzione temporo-parietale destra) è considerata cruciale nel meccanismo di confronto delle azioni prodotte dal soggetto stesso con quelle provenienti dall’ambiente circostante. La giunzione temporo-parietale è un’area associativa che integra input provenienti da aree sensitive primarie e secondarie e mantiene contatti reciproci con la corteccia prefrontale e i lobi temporali. Una sua lesione può causare diverse affezioni cliniche associate all’alterazione del riconoscimento del corpo e della consapevolezza di sé, come ad esempio l’anosognosia (negazione dello stato di malattia).  
Essa garantisce di riconoscere il sé come distinto dall’altro, consentendo di muoversi agevolmente tra le proprie e le altrui rappresentazioni mentali. Vari studi di neuroimaging funzionale hanno mostrato il suo coinvolgimento nei casi in cui il soggetto volontariamente immagina di vivere l’esperienza dell’altro. Una specifica attivazione di questa area è stata infatti documentata nei casi di perspective taking31 anche quando l’osservatore si mette nei panni dell’altro che sta subendo una stimolazione dolorosa.32 La risposta emotiva individuale è infine correlata, secondo la teoria del “marcatore somatico”, con la capacità di prendere delle decisioni.33 Il decision making non è altro che uno dei tanti processi cognitivi in cui l’empatia e la risposta emotiva  sono coinvolte, svolgendo un ruolo di primo piano. Esiste quindi un circuito emozionale che guida inconsciamente le nostre scelte, o meglio le marca come buone o cattive delimitando lo spazio decisionale, come è dimostrato dai dati pubblicati da Bechara34 su pazienti affetti da danno della corteccia prefrontale. Oltre a essa però, anche altre aree, come amigdala e insula, sono coinvolte nei meccanismi di decision making e di intelligenza emotiva, secondo quanto provato da Baron e collaboratori.35 In particolare, l'amigdala risulta coinvolta nelle reazioni di paura o di rammarico che possono rientrare nelle emozioni negative connesse all’attività di decision-making. La corteccia dell’insula sembra attivarsi quando la scelta si indirizza verso opzioni rischiose rispetto ad alternative sicure.

Conclusioni
L’empatia è un costrutto neuropsicologico regolato da componenti emotive e cognitive, che consente di comprendere le emozioni altrui. La sua alterazione è tipica di numerose patologie neurologiche e psichiatriche, come la degenerazione lobare frontotemporale,36 l'autismo,37, 38 la schizofrenia39 e l'alessitimia.40
 
Dall’automatico contagio emotivo ai più evoluti meccanismi di teoria della mente, la capacità di entrare in contatto con l’altro si è enormemente modificata nel corso dell'evoluzione, adeguandosi alle esigenze sempre crescenti di una società complessa come la nostra. Nonostante anche gli animali siano in grado di condividere in maniera elementare sentimenti ed emozioni con i propri simili, solo gli esseri umani possono sforzarsi volontariamente di comprendere il vissuto e i sentimenti dell’altro, pur riconoscendone la totale diversità da se stessi. Questa qualità, squisitamente umana, rappresenta la base di tutti i comportamenti prosociali, solidali e altruistici che si possono osservare anche tra individui che apparentemente non hanno nulla in comune tra loro. La capacità empatica, costituendo il motore dell'aggregazione sociale, ha garantito la crescita e la sopravvivenza del genere umano, operando anche una grossa spinta verso l’evoluzione della specie. L’interazione sociale e lo scambio interindividuale beneficiano della capacità empatica, codice comune per l'interpretazione delle esperienze e dei sentimenti tra individui della stessa comunità. Alla base del fitto intreccio di processi emotivi e cognitivi, che regolano il riconoscimento e la comprensione delle emozioni, la consapevolezza di sé e la capacità di inferire il pensiero altrui, non si identificano in un singolo sistema neurale. Sembra piuttosto che ogni fase di questa complessa architettura funzionale abbia un suo specifico circuito neurale mirabilmente interconnesso a tutti gli altri. Lesioni a carico di amigdala, corteccia cingolata e paracingolata, corteccia prefrontale orbitofrontale/ventromesiale così come della corteccia temporale o parietale possono quindi indistintamente comportare una compromissione dell’empatia e dell'intelligenza sociale. Ciononostante, il danno di una singola componente del network dell’empatia non sempre sembra essere sufficiente a distruggerne l'integrità funzionale. Le diverse aree cerebrali orchestrano insieme la risposta emotiva dell’individuo, in assenza di una stretta rappresentazione gerarchica. Recentemente in alcune scuole inglesi è stato messo a punto e utilizzato un test di ammissione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia che include una sezione dedicata alla valutazione delle capacità empatiche. È nostra speranza che tutte le Scuole di Medicina, oggi e in futuro, dedichino uno spazio alla formazione all’empatia del personale coinvolto nell’assistenza e nella cura dell'essere umano sofferente. Questa  formazione, oltre che teorica, dovrebbe essere fondata su un percorso esperienziale volto al riconoscimento e controllo delle proprie emozioni, e al miglioramento della consapevolezza di sé al fine di riconoscere e accrescere le proprie capacità empatiche.

Published
18th September 2010
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