Il dolore tra medicina razionale e medicine "parallele"
Pain between rational and "parallel" medicines
Lettura
Pathos 2012, 19; 4; 2012, Dec 5
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Germana Pareti
Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione
Università di Torino
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Riassunto Questa breve rassegna si propone di illustrare i temi di un simposio internazionale che si è tenuto di recente a Parigi, dedicato al confronto tra medicina razionale e medicine parallele nel mondo antico, ma con riferimenti anche alla storia moderna e contemporanea. In questo ambito, la trattazione del dolore gode di un’attenta considerazione, poiché da sempre nella storia della medicina il dolore è associato alla malattia e si sono perpetrati notevoli sforzi per sopprimerlo. Due relazioni hanno trattato gli effetti placebo e nocebo, ricostruendone la storia, mettendo in luce i meccanismi sia neurobiologici sia psicologici che li attivano, e mostrando le implicazioni bioetiche conseguenti all’induzione del nocebo. Se pure i processi neurali sottostanti a questi effetti non erano noti alla scienza del passato, certe pratiche venivano però impiegate non solo dai medici, ma anche dalla Chiesa per suggestionare le masse ignoranti.
Summary This short review aims to illustrate some topics of an international symposium recently held in Paris, dedicated to the comparison of rational and “parallel” medicines in the ancient world, but also with references to the modern and contemporary history. In this context the treatment of pain deserves attention, since in the history of medicine it has always been associated with the disease, and considerable efforts have made to suppress it. Two contributions have dealt with the placebo/nocebo effects, recostructing their history, highlighting both neurobiological and psychological mechanisms triggering them, and showing the bioethical implications deriving from induction of nocebo. Although the neural processes underlying these effects were not known to the science of the past, certain pratices were, however, used not only by doctors, but also by the Church to influence the ignorant people.
Parole chiave Dolore, placebo, nocebo, storia, suggestione, medicina biopsicosociale, implicazioni bioetiche
Key words Pain, placebo, nocebo, history, suggestions, biopsychosocial model, bioethical implications
Il 24 e il 25 settembre scorsi si sono tenute alla Maison de la Recherche di Parigi, organizzate dal Laboratoire d’excellence, Réligions et sociétés dans le monde méditerranéen (in collaborazione con l’Université de Paris-Sorbonne (Paris IV), il CNRS -UMR 8167 “Orient et Méditerranée”, laboratoire “Médecine grecque”), due giornate di studio dedicate al rapporto tra paziente e medicina, esaminato soprattutto dal punto di vista della “scelta” del malato.
In luogo di chiedere risposte e aiuto terapeutico alla medicina razionale e consolidata dalla tradizione, nel corso dei secoli, non di rado i pazienti hanno preferito rivolgersi ad “altre” concezioni mediche, in qualche modo “parallele”, e talvolta addirittura sotterranee, che comunque sembravano in grado di fornire terapie e soluzioni efficaci.
Mentre i lavori congressuali del primo giorno hanno riguardato la cultura greca e latina, con l’esame delle fonti letterarie ed epigrafiche della storia della medicina, in un’impostazione autenticamente interdisciplinare che coinvolgeva letteratura, filosofia, storia e antropologia, la seconda giornata prevedeva la disamina delle stesse tematiche, affrontate però in una prospettiva moderna e contemporanea da storici della medicina e specialisti, dai quali poteva provenire qualche spiraglio sui misteri della “sfera della salute psicosomatica”.
Nella seconda giornata, due interventi, in particolare, di studiosi entrambi dell’Università di Torino hanno affrontato il tema del dolore da differenti angoli visuali, senza pero perdere di vista l’approccio storico, che ha costituito il contrassegno di questo convegno. Riccardo Torta, del Dipartimento di Neuroscienze, ha riferito su L’effet placebo: de l’histoire à la science, mentre Germana Pareti, storica della filosofia, è intervenuta su L’effet nocebo dans la médecine rationnelle. Dopo aver rievocato l’origine del termine “placebo”, voce che si trova all’inizio del Salmo 116, nono versetto: Placebo Domino in regione vivorum, Torta ha spiegato che cosa si intende precisamente per “effetto placebo” e ciò che avviene a seguito della somministrazione di un placebo, cioè di una sostanza inerte che, qualora presentata in un determinato contesto relazionale e psicologico, crea nel paziente l’aspettativa di un beneficio. In qualità di neurologo sensibile all’inquadramento biopsicosociale della malattia, Torta non si è limitato a trattare i correlati fisici dell’effetto placebo, che implicano il rilascio di oppioidi endogeni in talune aree corticali e subcorticali, ma ha messo in luce anche gli aspetti fisiologici, cognitivi, emozionali, culturali e ambientali del dolore. Secondo l’ipotesi biopsicosociale, infatti, è il rapporto tra corpo, mente e mondo esterno che plasma l’elaborazione del dolore. In tal caso, prenderne coscienza significa tramutarlo da stato di malattia (da vivere in maniera passiva) a esperienza che, attraverso il rapporto medico-paziente, può concorrere al miglioramento della vita.
Sul piano della storia delle neuroscienze, Pareti ha invece ricostruito l’origine e lo sviluppo dell’effetto nocebo nel corso dei secoli, ricordando che il termine stesso “nocebo” fu introdotto nel 1961 da Walter Kennedy. Benché il lemma “placebo” nella sua connotazione scientifica sia apparso già nel 1920 in un articolo pubblicato su ≪The Lancet≫ a firma di T.C. Graves, di solito i neuroscienziati fanno partire la storia di questi due effetti, placebo/nocebo, in epoca più recente.
In genere, il “nocebo” di Kennedy è visto come pendant alla parola “placebo”, apparsa in uno scritto del 1955, Powerful Placebo a firma Henry K. Beecher, che l’aveva impiegata per denotare un effetto psicologico, oltre che fisico, nella presa di coscienza del dolore. Pare che il primo tentativo di quantificare gli effetti di un placebo attraverso una percentuale abbia preso l’avvio dall’osservazione di Beecher che i soldati americani di stanza in Europa occidentale nella II guerra mondiale, se ricoverati per le ferite negli ospedali, davano prova di sopportare il dolore meglio dei civili. Essi manifestavano aspettative meno pessimistiche e, in generale, un atteggiamento positivo nei confronti della vita.
Kennedy aveva parlato di “reazione nocebo”. Ora, se per effetto nocebo si intende una reazione opposta a quella del placebo, è verosimile che, alla somministrazione di una sostanza inerte, presentata nel contempo come potenzialmente mal sopportata, si provino effetti indesiderabili e dolorosi.
Questo effetto negativo è accentuato qualora si diano istruzioni verbali specifiche, per esempio suggerendo al paziente che di lì a breve subirà un aumento della sensazione dolorosa. E tali anticipazioni negative agirebbero in maniera ancora più potente, nel caso in cui la suggestione provenisse da un’autorità medica.
Per capire la portata e l’efficacia di questi meccanismi, gli storici delle neuroscienze, in particolare della Harvard Medical School, hanno approfondito lo studio di talune pratiche in uso presso gli ambienti religiosi del XVI secolo.
All’epoca, soprattutto i protestanti avevano profuso sforzi notevoli per denunciare le suggestioni esercitate dagli esorcisti, specialmente presso le fasce più deboli e retrograde della popolazione. Questi tentativi di smascheramento furono perpetrati soprattutto nella Francia devastata dalle guerre di religione a cavallo tra Cinque e Seicento, allorquando i cattolici fecero ricorso alla pratica dell’espulsione del diavolo dal corpo degli “indemoniati” come prova del legame tra gli Ugonotti e le forze del male.
Ma il più delle volte, invece dell’acqua benedetta o dei testi sacri, i preti si servivano di acqua pura e di testi latini, e nondimeno affermavano di osservare “il Malefico” che usciva dal corpo dell’indemoniato. Michel de Montaigne nei suoi Essais, e in particolare nel capitolo XXI intitolato ≪La forza dell’immaginazione≫, si era servito di numerosi esempi di provenienza medica per descrivere la credenza nei miracoli e nelle visioni, soprattutto presso le anime più semplici e volgari, ≪che credono di vedere ciò che non vedono affatto≫.
Montaigne si domandava come mai i medici cercassero di carpire la buona fede dei pazienti, facendo illusorie promesse di guarigione e fornendo al malato ≪l’imposture de leur potion≫ che andava ad aggiungersi, potenziandoli, agli effetti dell’immaginazione.
Del resto, uno dei maestri di queste pratiche aveva asserito che ci sono persone, per le quali è sufficiente la vista di un rimedio per essere guarite!
Ma Montaigne era ancora più icastico, e non esitava a paragonare i medici ai preti, i quali non facevano mistero di professare il seguente credo: ≪Une forte imagination produit l’événément≫.
Nella letteratura storico-medica, specialmente di area culturale angloamericana, ha avuto successo il cosiddetto trick trial, che ebbe origine da questo atteggiamento di scetticismo nei confronti delle posizioni della chiesa cattolica. Lo “svelamento delle imposture” era praticato già ai tempi di Luigi XVI, il quale nella seconda meta del Settecento aveva istituito una commissione apposita per accertare gli effetti del mesmerismo, cioè per provare se esistesse realmente una nuova forza fisica, il magnetismo animale che, secondo il medico austriaco Franz-Anton Mesmer, aveva il potere di curare e produrre effetti benefici sul paziente, dopo averne provocato crisi violente con grida e pianti.
Nel 1784 il chimico Antoine Lavoisier e il fisico Benjamin Franklin condussero personalmente esperimenti per verificare le reazioni dei pazienti a oggetti che credevano mesmerizzati.
Si trattava di una sorta di placebo ante litteram, giacché alcuni soggetti entravano in crisi, con urla e convulsioni, all’esposizione ingannevole, per esempio, di un rametto, che era stato presentato come mesmerizzato e quindi in grado di guarire.
Al contrario, poteva capitare che lo stesso paziente non manifestasse alcun segno di reazione se veniva posto a contatto di un oggetto, per esempio un albero, che a sua insaputa era stato trattato con il fluido mesmerizzante. Nel secolo successivo, per effetti del metodo positivistico che si era diffuso in Europa, anche in medicina furono adottati schemi e principi di derivazione fisico-chimica.
L’arte della guarigione diventò scienza, e sotto questa luce la medicina clinica non vide di buon occhio quelle presunte reazioni, di natura più psichica che fisica, le quali non si lasciavano ricondurre entro un preciso modello biochimico.
Verso la fine del secolo, tuttavia, questa rigida impostazione cominciò a dar segni di cedimento. Si profilavano malattie che sfuggivano alle maglie dei postulati di Henle-Koch, secondo i quali doveva esistere una diretta relazione causale tra agente patogeno e malattia.
Il paradigma riduzionistico subì un ulteriore sommovimento, quando si scoprì che esistevano i portatori sani di certe malattie, che vi erano soggetti, i quali, pur esposti all’infezione, non la sviluppavano.
Emergevano poi malattie non riconducibili all’azione di batteri, le allergie, le malattie autoimmuni, il cancro, le patologie legate all’invecchiamento.
Parallelamente a questi cambiamenti, tra Otto e Novecento, importanti scoperte sul piano della neuroanatomia e della neurofisiologia permisero di individuare le funzioni delle diverse regioni corticali. E a poco a poco si fecero sempre più chiari il ruolo e le connessioni di aree quali il sistema limbico e i nuclei talamici, che partecipano alla formazione degli stati emotivi e all’elaborazione dei processi nocicettivi.
Frattanto, i confini tra le emozioni e l’attività razionale si facevano sempre più sfumati.
Nel secondo Novecento, autori come Antonio Damasio e Joseph LeDoux hanno condotto ricerche, secondo le quali peculiari aspetti della vita emozionale non sembrano doversi ritenere disgiunti dall’attività razionale. Anzi: alcuni percorsi neurali sottesi all’espressione di sentimenti ed emozioni sarebbero almeno in parte condivisi anche nell’esplicazione delle cosiddette facoltà intellettuali e cognitive.
Di pari passo crescevano le conoscenze sui meccanismi del dolore: si scopriva che esso può venir modulato e alterato, in modo da alzarne o abbassarne la soglia, anche per mezzo di eventi mentali o addirittura di suggestioni ipnotiche. Si scopriva come poteva esserne facilitata la comparsa.
Se ne accertava la sgradevole presenza concomitante a stati di depressione di introversione e disagio sociale, poichè non di rado i soggetti che si trovano in tali condizioni accusano dolori cranio-facciali.
A completamento di questo capitolo di storia dell’induzione del dolore, non è mancato un riferimento a una possibile esplicazione farmacologica del nocebo, tanto più doverosa se si ricorda che proprio l’Università di Torino vanta ricercatori, i quali sono stati tra i primi a occuparsi degli effetti placebo/nocebo. In questo contesto, sia pure senza approfondire il discorso sul piano neurofisiologico, si è fatto cenno che, nei fenomeni di iperalgesia, è coinvolto non solo il sistema delle colecistochinine (CKK, neurotrasmettitori che, antagonizzando l’azione degli oppioidi endogeni, hanno un effetto nocicettivo), ma anche l’asse ipotalamo-ipofisosurrenale, cui si accompagna l’azione dell’ippocampo.
Si sono poi ricordate alcune esperienze significative, consistite nel somministrare a un gruppo di volontari un’autentica pillola contro l’emicrania e a un altro gruppo un medicamento fittizio.
I due gruppi erano stati informati della possibile comparsa di disturbi, come nausea e vomito, come effetto collaterale della somministrazione del farmaco. Questi malesseri furono accusati anche da una considerevole percentuale (tra il 30 e il 40 per cento) dei soggetti che avevano ricevuto la falsa pillola. In un’altra ricerca venivano significativamente ridotte le dosi di morfina a pazienti che avevano subito un’operazione dolorosa, senza però che tutti i soggetti ne fossero informati.
Dopo quattro ore, i pazienti che ignoravano la diminuzione progressiva della droga presentavano livelli di dolore sostanzialmente immutati rispetto al periodo precedente, in cui erano trattati con la morfina. Al contrario, gli altri percepivano il male con un’intensità doppia rispetto al trattamento precedente e, fatto ancora più singolare, la sensazione dolorosa era rilevata anche per mezzo di parametri fisiologici, quali l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa.
Nel descrivere i fenomeni biochimici che hanno luogo nel cervello a seguito della somministrazione di un placebo o di un nocebo, i neuroscienziati si sono concentrati sui processi di condizionamento e di aspettativa negativa che attivano il dolore. La ricercatrice Irene Tracey, che dirige a Oxford il centro di risonanza magnetica funzionale del cervello, ha condotto esperimenti significativi sull’influenza che le credenze e le aspettative possono avere sugli effetti terapeutici di un certo medicamento, nella fattispecie un oppioide potente.
Con il neuroimaging si sono studiati gli effetti del remifentanil in tre condizioni sperimentali: senza alcuna attesa dell’analgesia; con la speranza di un effetto benefico da parte dell’analgesico; con un’aspettativa negativa di analgesia, vale a dire con un’attesa di iperalgesia o esacerbazione del dolore.
I ricercatori hanno impiegato la risonanza magnetica funzionale per registrare l’attività cerebrale al fine di verificare gli effetti delle condizioni di aspettativa (positiva e negativa) sull’efficacia dell’oppioide e di spiegarne i meccanismi neurali fondamentali.
Mentre la fiducia in un esito positivo del trattamento agevolava (talora persino raddoppiandolo) l’effetto del farmaco, l’aspettativa negativa sopprimeva l’azione del remifentanil. Questi effetti soggettivi trovavano riscontro in evidenze oggettive, in quanto si osservavano modificazioni dell’attività neurale sottese a regioni cerebrali preposte alla codifica dell’intensità del dolore. Sembra che gli effetti negativi dell’aspettativa circa l’analgesia debbano essere associati all’attività dell’ippocampo.
Dunque anche in questo caso, i ricercatori sono giunti alla conclusione che l’attesa dell’effetto di una medicina ne influenza in maniera critica l’efficacia terapeutica e che i meccanismi autoregolativi del cervello differiscono in funzione dell’aspettativa. In definitiva, assumendo il dolore come un modello, e riconoscendo che la reazione dolorosa è provocata non solo da uno stimolo fisico, ma anche dalla risposta individuale, vanno tenute presenti le enormi variazioni con cui soggetti differenti reagiscono, in condizioni diversificate, allo stesso stimolo doloroso.
Questi aspetti che oggi sono all’attenzione dei neurofisiologi, un tempo erano dibattuti soprattutto dai filosofi e dagli antropologi. James G. Frazer ne Il ramo d’oro (1911-15) aveva affermato che l’immaginazione ha sull’uomo esattamente la stessa influenza della forza gravitazionale. L’immaginazione puo uccidere né più né meno di una dose di acido prussico – sosteneva Frazer, rilevando che, a scopo di protezione, le società primitive avevano escogitato un sistema ben articolato di tabù e di regole cerimoniali.
Questa razionalizzazione delle credenze primitive era stata criticata aspramente dal filosofo Ludwig Wittgenstein, che aveva giudicato “rozze” le opinioni di Frazer, reo di aver fatto apparire quelle concezioni magiche e religiose alla stregua di errori. Nondimeno lo stesso Wittgenstein riconosceva che anche le società evolute hanno le proprie magie e i propri esorcismi, ancorché differenti dalle usanze dei selvaggi.
Allora, anche nel rapporto medico-paziente e, in generale, nell’ambito sanitario, gioca l’influenza del comportamento, delle forme di comunicazione, del linguaggio, del contesto, della gestualità e del modo in cui le parole sono proferite. L’effetto nocebo si attiva innescato da segnali negativi provenienti dall’ambiente medico o dal contesto psicologico e sociale del paziente.
Alla ricerca del corretto equilibrio tra “conoscenza e credenza”, tra responsabilità individuale e parametri della scienza medica contemporanea, il trattamento della “persona” nell’interazione con l’ambiente dovrà coinvolgere strategie terapeutiche, che mirino a favorire (e consolidare) gli effetti del placebo e a prevenire (e impedire) le indesiderabili conseguenze del nocebo. In tempi recenti, soprattutto le conseguenze di questa seconda reazione hanno suscitato un vivace dibattito in ambito bioetico.
I bioeticisti, infatti, hanno posto l’accento su un vero e proprio dilemma etico che perturba il medico: specialmente in quei casi in cui la sopravvivenza è a rischio, per esempio nel caso di un’operazione o di una terapia dagli effetti tossici, i medici hanno ancora l’obbligo di “dire la verità al paziente”, informandolo degli effetti secondari anche gravi, che ne possono derivare, o non sarebbe invece più proficuo minimizzare i danni collaterali e tacere sui rischi eventuali che una spiegazione esaustiva è tenuta a prospettare?
Lungo questa linea di pensiero, si auspica l’introduzione di corsi di educazione rivolti al paziente, ma anche di comunicazione per i medici, i quali sono invitati a imparare a servirsi delle parole in modo mirato e pacato, con l’obiettivo di trasmettere suggestioni positive, evitando il più possibile quelle negative.
Partendo dal presupposto che la comunicazione è già di per sé terapia, gli esperti hanno raccolto in una sorta di manualetto le espressioni che dovrebbero scomparire dal vocabolario della prassi clinica e che un medico capace e sensibile non dovrebbe mai usare, né nel proprio studio né tantomeno in una corsia di ospedale, specialmente nei reparti oncologici.
Oltretutto, si presume che, con un migliorato training nell’informazione della prognosi, molti accanimenti chemioterapici sarebbero rifiutati dai pazienti, cui spetta la decisione ultima sulla propria sorte. Infine, questa discussione si rivela tanto più attuale e proficua sul piano pratico, se si considera che la preparazione dei medici a comunicare le notizie (buone e cattive) comporterebbe persino una ricaduta positiva sull’economia, giacché si e calcolato che i costi dell’effetto nocebo per i farmaci ammontano a cifre strabilianti.
Un aneddoto frequentemente citato nella letteratura medica sull’argomento evoca il caso del malato di cuore ricoverato in ospedale, per il quale il cardiologo aveva richiesto l’estrema unzione. Quando il prete giunse al capezzale, si sbagliò di letto: dopo aver ricevuto l’estrema unzione, il paziente morì. Pero si trattava del malato nel letto vicino…
Published
5th December 2012