La percezione del dolore e il suo controllo: quello che ancora non sappiamo
Perception of pain and its control:
all that we don't know yet
Mario Tiengo
Professore Emerito Università degli Studi di Milano
Atti congressuali
Pathos 2008, 15; 1-2: 21-25
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Riassunto
La neurofisiologia del dolore è facilmente comprensibile (almeno entro certi livelli) finché si parla di eventi riconducibili alla fisica classica. Per affrontare il tema della percezione del dolore dobbiamo analizzare i fattori mentali quali la suggestione (placebo), le emozioni e il tono dell’umore. La percezione del dolore può essere esplorata nell’elusivo mondo dei quanti.
Summary
Neurophysiology of pain is comprehensible (at least within certain levels) until events related to classic physics are concerned. In order to face the topic of the perception of the pain we have to analyze the mental factors like the suggestion (placebo), the emotional events and the tone of humor. The perception of the pain can be explored in the world of quanti.
Parole chiave
Dolore, percezione, placebo, fattori mentali
Key words
Pain, perception, placebo, mental factors
“Il problema più importante nelle scienze biologiche è quello che fino a poco tempo fa gli scienziati non consideravano nemmeno un soggetto degno di indagine scientifica. Esso è il seguente: in che modo esattamente i processi neurobiologici che avvengono nel cervello causano la coscienza?”
John Searle, Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 1998
Chiamiamo dolore la percezione di danno, o presunto tale, che uno stimolo produce e che rischia di distruggere il nostro corpo o una parte di esso.
Scriveva Cartesio che il dolore è un segnale d’allarme che avverte l’anima di un pericolo imminente.
Uno dei padri fondatori dell’algologia moderna, John Bonica, ebbe a scrivere che definire il dolore è tanto difficile che pensava dovervi rinunciare. Infatti, come tutti gli eventi che coinvolgono la nostra emotività (la gioia, la tristezza ecc.) il dolore è un’esperienza personale, privata, non comunicabile ad altri. Per esempio, come descrivere a parole lo stato di felicità o di malinconia che possiamo “provare”?
In effetti, se vogliamo studiare il dolore, dobbiamo pur tentare di darne una definizione. Cito ad esempio la definizione che del dolore dà la International Association Study of Pain (IASP): il dolore è un’esperienza personale ed emozionale spiacevole, associata a danno tissutale, potenziale o in atto, o descritta in termini di danno. Anch’io, in tal senso, ho tentato una proposta che, pur non essendo una definizione, è la descrizione di un processo fisiologico a funzione protettiva: il dolore è la presa di coscienza di un’informazione nocicettiva. Il presente scritto vuole esporre il razionale scientifico di questa definizione che a molti può risultare oscura. La ricezione avviene in periferia, a livello di una terminazione nervosa detta appunto nocicettore (da noxa e recettore) adibita a riconoscere stimoli dannosi che colpiscono i tessuti del nostro organismo. In altri termini, allorché uno stimolo nocivo (per esempio un calore eccessivo, o una compressione eccessiva, o una sostanza caustica ecc.) viene a contatto con la cute o con le mucose, provoca l’eccitazione dei nocicettori, e immediatamente il formarsi di un messaggio in codice (impulso nervoso) che inizia a percorrere le fibre nervose (fibre afferenti dolorifiche), dapprima lungo i nervi periferici e poi, risalendo lungo il midollo spinale, fino al talamo. Durante la fase di trasmissione il messaggio può perdere di intensità grazie al sistema di modulazione mesencefalo-bulbo-spinale. In tal modo al talamo perverranno segnali di intensità ridotta, rispetto a quella originale e che il messaggio aveva durante la trasmissione e prima di entrare nel midollo.
Nel cervello il flusso di informazioni nocicettive provenienti dal talamo, si distribuisce a molte aree o a nuclei di cellule (com’ è oramai ben dimostrato con studi di imaging), integrandosi. Il fenomeno dell’integrazione fu descritto e studiato agli inizi del secolo scorso, nella fisiologia del movimento muscolare, da uno dei più grandi fi siologi del novecento, Charles Sherrington (Università di Oxford e premio Nobel per la fisiologia nel 1932). Anche per merito della scuola di fisiologia della Università di Heidelberg, coordinata da Robert Schmidt, (e di cui faceva parte il neurofisiologo del dolore Manfred Zimmermann), il fenomeno dell’integrazione fu dimostrato compiersi anche nel cervello. L’emergere degli stati di coscienza avviene per integrazione delle informazioni sensoriali (vista, udito, tatto) fra il cervello cognitivo ed il cervello emotivo. L'emergere dello stato cosciente si accompagna alla capacità di percepire. Se il sistema neuronale della coscienza è reso refrattario con farmaci (per esempio anestetici) o con interventi “mentali” (ipnosi, suggestione, distrazione) l’espressione dello stato cosciente non avviene, o avviene in modo frammentario e non si ha percezione o comunque avviene una percezione alterata. Nel caso del dolore, l’integrazione delle informazioni nocicettive talamiche nei circuiti della coscienza evoca la percezione del dolore, nelle sue due componenti funzionali cognitiva ed emotiva. Alterazioni emotive e cognitive possono interferire sulla percezione del dolore (v. metafora dello specchio). Tuttavia Ingvar e Petrovich (Karolinska Institute, Stoccolma) recentemente hanno potuto, con la risonanza magnetica, evidenziare nell’uomo collegamenti funzionali tra il giro cingolato anteriore, l’amigdala e il sistema di analgesia endogena (PAG) dando cosi un’importante dimostrazione: esiste anche un secondo meccanismo con cui gli stati emotivi possono modulare il dolore stimolando il sistema inibitorio delle afferenze dolorifiche, ossia agendo oltre che sulla fase di percezione anche sulla fase di trasmissione. La neurofisiologia del dolore è facilmente comprensibile (almeno entro certi livelli) finché si parla di eventi riconducibili alla fisica classica, quella newtoniana delle evidenze, per intenderci. Finché parliamo di ricezione e di trasmissione della informazione nocicettiva non credo esistano seri problemi. Ma quando affrontiamo il discorso sulla percezione del dolore, ossia quando la nocicezione diventa dolore, le cose cambiano radicalmente. Basti pensare ai fattori che possono ridurre la percezione del dolore fino ad azzerarla: fattori mentali quali la suggestione (placebo), le emozioni (Stress Induced Analgesia), oppure il tono del nostro umore. O al contrario pensare alla percezione del dolore che compare e persiste, anche grave, pur in assenza di qualsiasi ragionevole causa fisica come avviene nel dolore atteso o nella depressione. Sono condizioni fisiologiche e patologiche sui cui meccanismi di origine e mantenimento esistono ancora molte incertezze e misteri. Riferendoci alla metafora di Alice che attraversa lo specchio, è come parlare di Alice prima di attraversare lo specchio e dopo averlo attraversato. È il passaggio da un mondo, quello a noi familiare, logico, che viviamo tutti i giorni, a un mondo ignoto che contraddice e capovolge ogni nostra logica culturale. Tuttavia entrambi i mondi, quello delle evidenze logiche e quello delle incongruenze, convivono e sono strettamente connessi uno all’altro, entrambi responsabili della percezione del dolore. È il mondo subatomico che adesso, anche in neurobiologia, ci apprestiamo a dover affrontare. Nella nostra storia scientifica, dove il riduzionismo ha portato a tanti successi, ciò era davvero prevedibile.
Nel 1922, anno della mia nascita, le uniche particelle subatomiche conosciute erano l’elettrone, il protone e il fotone, già intuito da Newton come componente della luce. Oggi di queste particelle chiamate subatomiche se ne conoscono ben 24 (ma c’è chi sostiene che la storia non finisca qui). Pertanto noi viviamo in due mondi. Il primo è quello delle esperienze quotidiane in cui parliamo, descriviamo, studiamo, consideriamo il comportamento di oggetti che possiamo vedere, udire, toccare, tutto il mondo che circonda i nostri sensi, quello che noi percepiamo. Un mondo in cui i concetti di materia, moto, spazio e tempo ci sono familiari. Un mondo in cui possiamo, di un fenomeno del quale conosciamo le condizioni di partenza, con buona sicurezza prevederne gli esiti. Ma i tessuti di organi che appartengono a questo mondo, come il nostro cervello, sono fatti di particelle molto piccole (dell’ordine di otto o dieci zeri dopo la virgola), il mondo subatomico, in cui tutte le regole cambiano ed in cui, mi si passi l’espressione, si dà un calcio al concetto di evidenza, e in cui, come scrive un illustre fi sico quantistico, “la materia solida è fatta in gran parte di vuoto, il tempo è relativo, la massa può essere creata o distrutta nelle collisioni e indipendentemente dalla completezza delle informazioni sulle condizioni di partenza, l’esito è sempre incerto”.
Il comportamento del mondo subatomico ci sorprende, ci inquieta, a volte persino ci irrita, come i commenti di David Albert, della Columbia University, che, riportando i dati sperimentali per stabilire le proprietà fisiche dell’elettrone (particella essenziale in neurobiologia, per esempio nel condizionare una sinapsi eccitatoria o inibitoria), fatto passare attraverso una “scatola” per la misurazione della “durezza” a due uscite (duro o tenero), scrive: “La situazione di fronte alla quale ci troviamo è la seguente: un elettrone che attraversa questo apparato non segue il percorso d (sta per duro) non segue il percorso t (sta per tenero), non segue entrambi i percorsi e non è vero che non segue nessuno dei due”. Lo stesso accade se vogliamo misurare un’altra proprietà fi sica dell’elettrone: il suo colore (nero o bianco). Infatti lo sperimentatore scrive: “Dall’esperimento appare che esso non sia nè nero nè bianco nè entrambe le cose, nè nessuna delle due”.
Queste sono le considerazioni che portarono alla formulazione di un concetto fondamentale in meccanica quantistica: la sovrapposizione. Ma ancora una volta grande è la sorpresa quando di questa proprietà, manifestazione del principio di indeterminazione di Heisenberg, apprendiamo che “nessun fisico sa dire con precisione di cosa si tratti, o meglio abbiamo una idea puramente negativa di ciò che essa vuol dire”.
Come diceva ai suoi studenti quello scienziato terminando la lezione sui campi di probabilità quantistica “Se mi dite di avere capito allora significa che mi sono espresso male”.
Il nostro sistema nervoso è fatto di materia composta da molecole e queste da atomi che, a loro volta, contengono particelle subatomiche come l’elettrone. Si è già detto che i comportamenti degli oggetti di maggior dimensione (evidenti ai nostri sensi) sono causati dalle proprietà degli oggetti più piccoli che li compongono (a noi invisibili). Sono convinto che abbiano ragione coloro i quali pensano che per proseguire con efficacia nelle nostre conoscenze sui meccanismi che governano l’interazione cervello-mente, e quindi aumentare la nostra comprensione dei fenomeni della percezione del dolore e del suo controllo, l’indagine debba far riferimento al comportamento delle particelle che costituiscono il substrato della materia vivente, il che significa passare dalla fisica di Newton alla meccanica quantistica.
Che io sappia, il primo fisiologo a tentare questo è stato John Eccles, premio Nobel (1963) per le sue fondamentali scoperte sulle sinapsi e sui sistemi inibitori del sistema nervoso. Con Eccles, e anche con il filosofo Karl Popper, ebbi negli ultimi anni del novecento un’importante collaborazione scientifica sulla neurofisiologia del dolore. La proposta avanzata da John Eccles riguardante gli psiconi che interagirebbero con i neuroni della corteccia attraverso campi di probabilità quantistica modulando la loro esocitosi sinaptica, non ebbe seguito ma è importante perché essa rappresenta il primo tentativo di interpretazione quantistica della modulazione “mentale” della percezione del dolore. Si potrebbe forse già parlare di algologia quantistica.
La percezione del dolore può quindi essere esplorata più a fondo nell’elusivo mondo dei quanti, accettando definitivamente il fallimento di ogni tentativo di conciliare le evidenze cliniche e i dati sperimentali con il senso comune.
“In realtà - scrive Albert - la fisica degli ultimi cento anni ci ha insegnato che il senso comune è poco utile nell’esplorare le nuove regioni del sapere... Nel corso del XX secolo abbiamo imparato che nel mondo subatomico la natura si comporta in modi strani, stravaganti e strabilianti sconosciuti al mondo che ci circonda”.
Lasciatemi riassumere ora il pensiero di uno dei più grandi fisici viventi: Paul Davies.
Il primo quarto di questo secolo ha visto nascere due grandi teorie: la teoria della relatività e la teoria dei quanti da cui nasce gran parte della fisica del novecento. Una fisica nuova che esige impostazioni nuove e impreviste, che talvolta vanno contro il buon senso e che sembrano accostarsi più al misticismo che al materialismo. Le idee di questa nuova fisica ci indicano un modo nuovo di valutare il vivente e l’uomo e il suo posto nell'Universo.
Come è nato l’Universo?
Come finirà?
Cos’è la materia?
E la vita?
E la mente?
Non sono certo domande nuove: di nuovo c’è che forse siamo sul punto di trovare risposte.
Bibliografia
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